Aphrodite’s Child: la band greca che creò l’album dell’Apocalisse

aphrodite's child

Intenta a godersi la fine degli anni 60, la band greca accidentalmente finì nel mezzo di una tempesta musicale apocalittica, che rapì persino l’immaginazione del grande maestro Salvador Dalí. Questa è la storia di 666 degli Aphrodite’s Child.

Salvador Dalí era di certo un cultore del bizzarro. Il pittore (autoproclamatosi genio) spagnolo una volta andò al Tonight Show con un rinoceronte di pelle, chiedendo di essere intervistato mentre lo cavalcava. Era terrorizzato a morte dalle cavallette e portava sempre con sé un ciocco di “legno fortunato” per scacciare gli spiriti maligni.

L’elenco delle stranezze è lungo, eppure tutte impallidiscono se confrontate con le grandi manovre che il maestro del surreale aveva ideato per promuovere la pubblicazione di 666, il disco del quartetto greco Aphrodite’s Child, uscito nel 1972.

Il piano di Dalí consisteva nell’organizzare un ‘happening’ a Barcellona al quale avrebbe partecipato esclusivamente un piccolo gruppo di pastori del luogo. Sarebbero stati loro, in seguito, a riferire a tutti gli altri le meraviglie a cui avevano assistito. Ci dovevano essere degli altoparlanti disseminati per strada che sparavano la musica di 666 per 24 ore e una parata di militari in uniforme nazista.

Centinaia di cigni avrebbero dovuto svolazzare di fronte alla Sagrada Familia di Gaudí, con dei candelotti di dinamite cuciti nella pancia e impostati per esplodere ‘al rallentatore, grazie ad effetti speciali’. Una flotta di aerei della marina avrebbe dovuto sfrecciare nel cielo, bombardando dall’alto la grande cattedrale. Niente bombe però: al loro posto elefanti, ippopotami, balene e – ebbene sì – arcivescovi armati di ombrello.

salvador dalì

Niente di tutto questo successe mai, ma ci dà la dimensione di che tipo di risposta estrema un disco come 666 fosse riuscito a suscitare. Stiamo parlando, dopotutto, di un’opera rock fuori dall’ordinario. Un concept album tanto ambizioso quanto anarchico, basato sul Nuovo Testamento, nel quale il bene e il male si battono in un’Apocalisse di San Giovanni distorta dal prisma degli anni 60. O roba del genere.

Frutto dell’ingegno del compositore Vangelis Papathanassiou e del paroliere Costas Ferris, 666 è uno stupefacente cocktail di proto-metal, sferzate psichedeliche e avanguardia. “Fu un album profetico”, spiega il batterista Lucas Sideras. “Nella Bibbia, San Giovanni parla del numero 666 per impedire che accada tutto questo [cioè l’Apocalisse]. Molti pensarono che avessimo fatto il disco perché credevamo nel 666, ma in realtà era tutto il contrario”.

Ma da dove viene 666?

C’è poco, nella storia degli Aphrodite’s Child, che potesse lasciar presagire un lavoro tanto ambizioso. Il gruppo era cresciuto artisticamente nell’ambito della scena beat greca degli anni 60. Vangelis scriveva canzoni pop facilone con una band chiamata Forminx, che a sua volta ispirò una serie di gruppi-clone come gli Idols e i We Five. In entrambi questi gruppi aveva militato, come cantante e bassista, il greco-egiziano Demis Roussos.

I due si ritrovarono, nell’autunno del 1967, a produrre insieme dei demo per la Philips sotto il nome di Papathanassiou Set. Gli altri due membri erano Sideras e il chitarrista Anargyros ‘Silver’ Koulouris. Come molti dei loro colleghi, anche loro vennero rapiti dalla psichedelia e cominciarono a contaminare i loro pezzi folk-rock con venature alla Beatles e alla Procol Harum, usando però strumenti della tradizione bizantina.

Il gruppo venne ribattezzato Aphrodite’s Child, e i quattro si stabilirono a Parigi nel 1968. Il 45 giri d’esordio, Rain And Tears, raggiunse la top 30 d’oltremanica e vendette ancora meglio nel resto d’Europa. Il primo disco, END OF THE WORLD, venne pubblicato nell’ottobre del 1968, seguito l’anno dopo dal più lisergico IT’S FIVE O’CLOCK. Entrambi gli Lp ebbero considerevole successo nel vecchio continente. Ben presto, gli Aphrodite’s Child diventarono gli stramboidi ipertricotici più celebri del Mediterraneo.

Rain And Tears era arrivata al primo posto in Europa e vendette più di 20 milioni di copie nel mondo, ricorda Sideras. Dopodiché ci diedero finalmente la possibilità di realizzare l’album che avevamo sempre sognato. E questo è 666.

Il ritorno di Silver Koulouris, che non aveva partecipato ai primi due album perché impegnato con il servizio militare, alterò le dinamiche interne della band, ma nessuno avrebbe potuto prevedere l’enorme cambiamento che il gruppo avrebbe intrapreso tra i solchi di 666. Il complice principale di Vangelis era lo scrittore e regista greco-egiziano Costas Ferris.

In esilio a Parigi, Ferris ideò 666 rifacendosi alla tradizione dell’oratorio, l’antica forma musicale religiosa: un ‘Oratorio Rock’ intitolato Revelation [ovvero l’Apocalisse – che nei paesi anglofoni è più comunemente chiamata Book of Revelation, ndt]. Ferris cominciò quindi a scrivere i testi seguendo la tecnica da lui ribattezzata del “rompicapo temporale” presente anche in film come Quarto Potere e Intolerance.

La narrazione è incentrata intorno a un circo, i cui acrobati e animali si esibiscono in uno spettacolo di intrattenimento a tema apocalittico. Fuori dal tendone del circo, si sta svolgendo il vero Giorno del Giudizio, ma tutti gli spettatori pensano sia solo parte dello show. La voce narrante però comprende quello che sta succedendo e diventa progressivamente più isterica.

All’apice della narrazione, i due eventi convergono in uno scontro epico. È come il circo Orfei che incontra La guerra dei mondi. La musica di Vangelis è una copiacarbone del gran finale congegnato da Ferris.

Ma il disco non è solo cataclismi e previsioni apocalittiche, anzi abbonda di vere e proprie monellerie. Il breve inciso di apertura The System  è un canto di gruppo che recita “Abbiamo il sistema / Per fottere il Sistema”. In sé, un ritornello privo di senso ideologico – niente di rivoluzionario dunque, ma che in qualche modo precorre il finale reazionario di Won’t Get Fooled Again degli Who.

Indimenticabile Loud Loud Loud, con quella linea di pianoforte austero, quella voce narrante distaccata e fredda, e un coro di bambini che sembrano i superstiti del cast di Hair (o i ragazzini sopravvissuti de Il Signore delle Mosche). The Battle Of The Locusts è invece un duello elettrico in piena regola che si scioglie nel wah-wah funky di Do It, una bomba così sfacciatamente sincopata da sembrare gli Ash Ra Tempel che suonano la techno.

Ma i pezzi più devastanti sulle prime due facciate di 666 sono The Four Horsemen e Aegian Sea. Nel primo, gli Aphrodite’s Child viaggiano a tutto vapore, con la chitarra elettrica di Koulouris che si staglia contro una parete di conga e strumenti a fiato, mentre la voce acuta di Roussos, al suo apice, taglia il brano come un Robert Plant angelico. Al contrario, Aegian Sea è un brano d’atmosfera di proporzioni enormi, caratterizzato dall’intersezione di linee di chitarra soul e cavalloni di rumori ambientali. Potrebbero quasi essere i Pink Floyd ai tempi dei loro sfarzi vesuviani. Anzi, Sideras racconta un aneddoto interessante al riguardo:

A maggio del ’68 a Parigi, ai tempi delle sommosse studentesche suonavamo in un club chiamato Psychedelic. Suonavamo sempre come trio, e Vangelis riusciva a ottenere un suono impressionante, potentissimo. Questo era il periodo in cui i Pink Floyd vennero in Francia per registrare la colonna sonora del film More. Non avevano ancora finito il disco però. Un giorno vennero allo Psychedelic e rimasero di sasso ad ascoltare il suono che riuscivamo a produrre. Non ci credevano che riuscissimo ad avere quel suono con solo tre persone nella band. Pensavano che utilizzassimo dei nastri pre-registrati come base.

Il secondo disco sembra invece la ricerca di una qualche conclusione spirituale al marasma del primo. Si apre con la clip parlata Seven Trumpets, per poi passare ad Altamont, che ripercorre gli eventi del concerto di Altamont (molto spesso considerato il fattore scatenante del collasso del sogno hippie) dalla prospettiva degli dei sulla montagna. È probabile che gli dei di Altamont non abbiano però visto tutto l’acido che girava al concerto.

Ma nulla al confronto di Infinity, un fiume in piena di 39 minuti – in parte terrore, in parte estasi – ridotto alla fine ad appena cinque minuti. Sullo sfondo di un tappeto rumoristico, l’attrice Irene Papas si abbandona all’orgasmo cosmico definitivo, partendo dal bisbiglio e raggiungendo il climax in strilli degni di una ‘banshee’ mitologica, finché tutto ciò che rimane è un guaito esausto. Vangelis interpreta il ruolo dell’amante musicale, avvolgendo Papas in un effetto surround orgiastico che le calza a pennello. Al confronto, Serge Gainsbourg sembra Edoardo Vianello.

Come ha fatto la Papas a dare un effetto tanto realistico ai suoi gemiti? Ce lo spiega Sideras:

Irene era molto, molto contenta di fare questa parte vocale! (Ride) Si chiuse nel suo cubicolo di registrazione e nessuno era autorizzato a guardarla. La stanza era totalmente buia… ed ecco come fece. Non finse. Quello è un vero orgasmo.

E poi arriva Hic And Nunc, una bella canzone pop con il piano in posizione prominente e il coro. Le parole evocano un mondo che emerge dalla disperazione senza leader, senza ego. Verso la fine del viaggio c’è la leggendaria jam di 20 minuti All The Seats Were Occupied, in cui un sassofono scatenato, le conga e la chitarra incendiaria di Koulouris vengono fuse con spezzoni di tutte le canzoni fin qui ascoltate.

Il finale, Break, è la proverbiale quiete dopo la tempesta. Cantata da Sideras, è una splendida ballata al piano, sofferta, tribolata, di quelle che si potrebbero trovare nei dischi dei Beach Boys dei primi anni 70. Uno scherzo intellettualoide, una follia concettuale totale o un capolavoro del progressive?! 666 è probabilmente tutti e tre.

Quando quelli dell’etichetta ascoltarono il disco, non furono contenti, ricorda Sideras. L’unica cosa che gli interessava era fare soldi e trovare la hit da lanciare. In Italia, Austria, Belgio e Germania questo disco non poté nemmeno uscire, per via della canzone con Irene Papas.

La Mercury rimandò la pubblicazione dell’album per quasi due anni, prima di cedere finalmente nel 1972. Ma era ormai troppo tardi.

Dopo questo disco, racconta Sideras, la divisione americana dell’etichetta ci chiese di andare negli Stati Uniti a suonare. Ma fu un problema, perché Vangelis aveva difficoltà a viaggiare. Per noi era una grandissima occasione, perché lì eravamo al numero 1 della radio FM. Ma Vangelis non voleva viaggiare, per cui non se ne fece nulla.

Gli Aphrodite’s Child si sciolsero. Jon Anderson invitò Vangelis a entrare negli Yes (il greco rifiutò educatamente l’offerta), mentre Sideras e Roussos intrapresero carriere soliste. Quest’ultimo divenne una superstar internazionale kitsch di proporzioni siderali, e Vangelis un compositore di colonne sonore pluripremiato. Nel frattempo 666 venne pubblicato lo stesso giorno di JESUS CHRIST SUPERSTAR. Insomma, ogni Yin deve avere il suo Yang.

Questo articolo è tratto da «Prog» n.36, disponibile in tutte le edicole e sul nostro store online!

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