Un prezioso documentario in bianco e nero, su pellicola 16mm, dipinge un ritratto completo e complesso di Bob Dylan nel 1965. Il cantautore appare così al grande pubblico tra grandiosità artistica e vulnerabilità umana in quello che è considerato il film fondativo del genere docu-rock. Dal momento in cui viene rilasciato, Don't Look Back di D.A. Pennebaker diviene un modello estetico, connotato dal British Film Institute nel 2014 come uno dei 10 migliori documentari mai realizzati. Si tratta di un progetto personale, schietto e profondamente reale, con cui Pennebaker scandaglia l'identità camaleontica del cantautore di Duluth, capace in continuazione di reinventare se stesso.
L'importanza di questo film sta nella celebrazione del primo grande festival rock della storia. Ancora una volta alla regia figura D.A. Pennebaker, maestro del genere, che catalizzò attraverso immagini e musica la potenza di quel fenomeno generazionale, incorniciato tra le giornate del 16, 17 e 18 giugno 1967. Così, i volti dei grandi protagonisti, tra cui Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jefferson Airplane e The Mamas & The Papas, rivivono tra gli sguardi estasiati della colorata folla all'evento. Un filtro grandioso di quella stagione storica governata dalla spensieratezza di un rock senza limiti e regole. Gli indimenticabili momenti sono stati raccolti no-stop dalle telecamere dei collaboratori di Pennebaker, destinati all'immortalità.
Attorno alla tragedia del Concerto di Altamont del 6 dicembre 1969 si racchiudono momenti di vita privata e professionale dei Rolling Stones in tour. Senza alcuna intermediazione narrativa, i registi Albert, David Maysles e Charlotte Zwerin, portano sullo schermo la cascata di eventi di quell’anno così come avvennero. E dai fotogrammi affiora l’inquietudine di un’epoca incanalata nella triade sesso, droga e rock ‘n roll, dove la controcultura giovanile, tra luci e ombre, divampa in tutta la sua energia vitale e libertina, lasciandosi avvolgere dalla rude eleganza sensuale dei Rolling Stones. Fino a quell’ultima scena per cui il lungometraggio diverrà celebre: l’omicidio di Meredith Hunter ad Altamont, la fine della stagione idilliaca della psichedelia di Woodstock.
Una ricca tessitura accompagna invece lo storico documentario sulla cronologia Who, firmato nel 1979 da Jeff Stein. Quest'ultimo imprime sulla pellicola molteplici manifestazioni della band, dai live, a inediti dietro le quinte, fino a indimenticabili interviste televisive, in modo che lo spettatore recepisca nella sua completezza la liturgia della storica band britannica. La panoramica conquista una più travolgente intimità grazie agli ultimi frammenti dell'esplosivo Keith Moon, ripreso fino a un anno dalla sua prematura scomparsa. Il documentario, infatti, ricopre una temporalità estesa dal 1964 al 1978, conformandosi come il prodotto più completo in materia, con un montaggio che ha richiesto cinque anni di composizione certosina per la sua realizzazione.
Ogni stagione storica ha il suo riflesso in musica, così se gli anni Sessanta hanno dato i natali ai Festival di Monterey e Woodstock, gli anni Ottanta cercano una nuova dimensione rappresentativa. E il punk, fiorito sul finire degli anni Settanta con la sua natura sprezzante e incendiaria è l'inedito protagonista del documentario di Penelope Spheeris. Lei è la regista portavoce della cruda e schietta realtà del punk losangelino ai suoi albori, tra band del sottobosco urbano e l'aura mortifera dell'eroina. Un vero cult ancora oggi per gli amatori, che si accompagna anche a una seconda pellicola intitolata The Decline Of Western Civilization Part II: The Metal Years. Qui i protagonisti diventano gli alfieri dell'hard rock di fine anni Ottanta, con firme arcinote come Ozzy Osbourne e Gene Simmons. Il loro è un ritratto a tratti comico e votato all'eccesso, ma trasuda lo spirito di una precisa sensibilità musicale.
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