La nostra intervista a Peter Buck

Peter Buck
Peter Buck
Direttamente dall’ultimo numero di Classic Rock, l’ex chitarrista dei R.E.M. ci parla del suo vecchio gruppo, della collaborazione con Luke Haines e di quanto sia fantastico non avere una casa discografica che ti dice cosa fare.

Undici anni dopo la dissoluzione dei R.E.M., il loro ex chitarrista-autore, Peter Buck, è più richiesto che mai. Oltre a tenersi oc- cupato con gli imminenti dischi dei super- gruppi Filthy Friends, The Baseball Project e The No Ones, ha appena pubblicato ALL THE KIDS ARE SUPER BUMMED OUT, la seconda collaborazione con l’ex leader degli Auteurs, Luke Haines. I due ce l’hanno messa tutta per realizzare un disco a tratti spettacolare, con alcune delle parti di chitarra più feroci mai realizzate da Buck, synth traballanti e i testi surreali e inquietanti di Haines. A bordo troviamo i consueti collaboratori Scott McCaughey e Linda Pitmon, e persino Lenny Kaye, leggendario chitarrista di Patti Smith.

Avevi in mente fin dall’inizio di fare un secondo disco con Luke?
Certo. Il primo è stato facilissimo. L’abbiamo fatto tutto tramite internet. Dovevamo andare in tour in Inghilterra nell’aprile del 2020, avevamo alcuni brani nuovi e l’idea era di fare un disco come gruppo. Ma, come per chiunque altro al mondo, le cose non sono andate come previsto. E così ci siamo ritrovati a fare quello [BEAT POETRY FOR SURVIVALISTS del 2020] prima di questo, registrandolo in cantina e in salotto. È interessante lavorare con Luke: non è come stare in un gruppo, dove suoni assieme agli altri. Piuttosto, accumuli cose su cose, e poi vedi dove portano.

È vero che la collaborazione con Luke iniziò anni fa, quando comprasti uno dei suoi ritratti di Lou Reed?
Sì. Lo fece per il suo NEW YORK IN THE ’70S [2014]. Mi piace possedere arte di gente che conosco e stimo. Gli scrissi e lui suggerì che io gli spedissi un paio di brani. Abbiamo realizzato il primo disco senza nemmeno incontrarci. Ci siamo visti solo quando sono andato in tour con i Filthy Friends, e abbiamo bevuto qualcosa assieme. Per cui, prima del nostro primo tour avevo passato circa un’ora in tutto con lui. Lavorarci assieme è molto interessante, perché non so mai cosa combinerà con la musica che gli invio. Il suo senso melodico è molto strano, strano in senso buono. Credo che questo disco sia superiore al primo. È molto potente, in parte perché ci siamo resi conto che non dovevamo seguire regole prefissate. A livello di testi, è come se Luke spedisse messaggi dal fronte, dove tutto cade a pezzi e ciò che rimane sono solo celebrità di serie B e questa voglia di nostalgia che in realtà non è vera nostalgia.

Come avete deciso il titolo?

Prima che fosse disponibile il vaccino, chiacchieravo con il mio vicino, che è un dottore: “Come state? Come vanno le cose?”, e lui mi ha risposto: “Io sto bene. Ho lavorato con le malattie infettive per tutta la vita, ma i ragazzi sono davvero scazzati. Non solo i miei, tutti i ragazzi”. E così, ci siamo ritrovati il titolo. L’ho suggerito a Luke, e gli è piaciuto subito.

A parte Luke, sembra che ultimamente salti da un grup- po all’altro: Filthy Friends, The No Ones, The Baseball Project, The Minus 5. Preferisci questo profilo basso a quello che hai avuto con i R.E.M.?

Sì. Sono grato di aver potuto vivere il successo dei R.E.M., ma una volta passato non m’interessava più ricercarlo. E oltretutto, non credo mi sarebbe stato possibile. Certo, ci sono sicuramente dei modi in cui avrei potuto tentare di mante- nere quella popolarità – fare un gruppo con qualcuno famoso, assumere un addetto stampa e tutte quelle scemenze. Lo vedo con altri gruppi: sono vecchi e ancora si sbattono cercando un pezzetto di fama. Io voglio solo scrivere canzoni, suonarle e inciderle.

Qual è stato il periodo più felice della tua storia nei R.E.M.?

Gli anni 80, penso. Quando arrivò il mega successo, non credo sia piaciuto a nessuno. Quando gli elementi non musicali si fecero troppo importanti, almeno a me tolsero gran parte del piacere. Arrivi al punto in cui ti svegli e pensi: “Dio, oggi non mi va di fare quel servizio fotografico. E non voglio far finta di essere un attore, in un video in cui non posso recitare”. Suonare a Glastonbury è stato stupendo, come anche esibirmi davanti a un sacco di gente e vendere milioni di dischi, ma non è mai stato questo il motivo per cui lo facevo. E quando tutti assieme decidemmo che era finita, per tutti noi rimase una bellissima esperienza. Non ne cambierei una virgola, ma non la ripeterei.

Leggi l’intervista completa sull’ultimo numero di Classic Rock!

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