HOUSES OF THE HOLY – Led Zep V

Alla sua uscita, il quinto album dei Led Zeppelin spiazzò tutti: perché tutta quella varietà stilistica? Eppure, cinquant’anni dopo, HOUSES OF THE HOLY rimane un capolavoro.

In una triste Gran Bretagna in piena recessione, paradossalmente il 1973 fu l’anno del glam rock, il momento di ragazzi che oscillavano fluidamente tra look femminili e maschili dimenandosi a Top of the Pops in costumi di carta stagnola, zatteroni da 30 centimetri e make-up letteralmente spalmato in faccia. In ogni caso, per i Led Zeppelin tutto quel luccichio era arrivato in anticipo. Erano già il gruppo rock più glamour al mondo e lo stupefacente successo planetario del loro quarto disco, noto come IV, li aveva fatti diventare anche il gruppo più forte.

Erano già stati numero uno contemporaneamente in UK e negli USA, molto prima che Bowie adottasse il lampo come simbolo o Bolan iniziasse a decorare con stelline il suo groove funkeggiante. E sarebbero stati proprio gli Zeppelin a pubblicare il disco più favolosamente ambizioso dell’anno, quello che sintetizzò alla perfezione l’atmosfera gioiosa e senza freni della scena musicale del 1973: un album intriso di puro edonismo intitolato HOUSES OF THE HOLY. Il quinto album dei Led Zeppelin, che quest’anno celebra il suo 50esimo anniversario, fu anche il primo a portare un titolo diverso dal nome della band, e rimane il più gioioso fra quelli da loro realizzati.

E quello più meravigliosamente in bilico. Oltre che il più decisamente colorato, scintillante e contagioso. Come Jimmy Page ricordava, “Si riesce a sentire quanto ci stavamo divertendo a farlo. E al tempo stesso si percepisce la nostra dedizione e il nostro impegno”. Erano i Led Zeppelin all’apice, una band al suo picco creativo. Soltanto i Rolling Stones riuscivano a stargli alla pari in quanto a promiscuità musicale, visto che entrambi giocavano con il funk, il reggae, il country e la West Coast.

E poi arriva HOUSES OF THE HOLY, che va ancora oltre, consentendo al jazz, ai sintetizzatori, al doo-wop e ai raga asiatici di insinuarsi nel loro sound. Come mi disse Robert Plant, “A quel punto, la cosa aveva assunto un aspetto del tutto diverso. La sensazione di assoluta libertà che provavamo era quasi insostenibile. Eravamo dei pirati musicali, decisi a provare qualsiasi cosa. Il risultato di questa attitudine fu HOUSE OF THE HOLY”.

Per gli Zeppelin, il ridondante sfarzo e la frivolezza musicale del 1973 erano già iniziati nel dicembre 1971, quando entrarono nei Basing Street Studios di Londra. Freschi del loro UK Winter Tour, non si erano presi nessuna una pausa. Page aveva 27 anni, ed era il supremo maestro di tutto ciò che era sotto il suo dominio, la luce, l’oscurità e quel che c’è nel mezzo. Plant, appena ventitreenne, era un semidio e, come osservò un testimone, “le donne erano tutte sue”. John Paul Jones aveva 25 anni, poteva suonare qualsiasi cosa ed era riconosciuto come il consigliori musicale di Page. Anche John Bonham aveva 23 anni, e dietro i suoi tamburi non aveva più alcun limite. Lontano dal palco era un padre di famiglia amorevole, dicevano.

Ma il fatto è che gli Zeppelin non erano mai lontani dal palco. Erano quattro giovani uomini all’apice del potere, con svariate canzoni giunte tutte assieme che spaziavano in direzioni diverse, comprese alcune gemme che avrebbero visto la luce del giorno solo anni dopo: la rilassata Down By The Seaside influenzata da Neil Young e la molto più dura The Rover, entrambe emerse rafforzate tre anni dopo in PHYSICAL GRAFFITI. Una versione semiacustica di Poor Tom, messa insieme da Page, Plant e Bonham e apparsa un decennio dopo su CODA.

E molto più impressionante e superiore rispetto a quelli citati, un brano bizzarro, cinematografico e dal sapore glaciale, tutto orchestrato con i synth, costruito da Jonesy e intitolato No Quarter. “Avevamo un po’ di riff da parte”, ricordava Page, “degli abbozzi sonori. A quel punto si è trattato solo di lavorarci sopra seriamente, per vedere cosa sarebbe successo”. Nell’aprile 1972, gli Zeppelin noleggiano lo studio di registrazione mobile dei Rolling Stones e iniziano a registrare nella tenuta di Mick Jagger, la Stargroves, nell’Hampshire, per poi continuare all’Olympic di Londra e all’Electric Lady di New York.

Tra una sessione e l’altra, avevano portato avanti il loro primo tour in Australia e Nuova Zelanda, quattro settimane che li videro riempire arene da 25.000 posti come il Western Spring Stadium di Auckland e lo Showground Stadium di Sydney. L’uscita del nuovo album era prevista originariamente per l’agosto 1972, al termine di un ennesimo tour tutto esaurito negli Stati Uniti. Ma, e non era la prima volta, ci furono problemi sia con la copertina che col missaggio, e alla fine slittò all’inizio del 1973, quando il gruppo avrebbe concluso il suo secondo tour giapponese e 25 date inglesi, iniziate a dicembre ’72 e andate avanti fino alla fine di gennaio – l’ultima volta che gli Zeppelin sarebbero andati in tour nel loro Paese d’origine. All’epoca non lo sapevano, ovviamente, e quei concerti furono visti come un trionfale ritorno a casa. Gli Zep erano la band che vendeva di più al mondo, e il loro manager Peter Grant si vantava a gran voce che solo in quell’anno avrebbero incassato “oltre trenta milioni di dollari”…

L’articolo continua nel numero 124 di Classic Rock.

E domani uscirà il nuovo numero in tutte le migliori edicole!

 

 

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