John Etheridge: intervista al chitarrista dei Soft Machine

John Etheridge
foto: Antonio De Sarno

John Etheridge intervistato da PROG Italia, racconta della sua carriera e dell’esperienza con i Soft Machine.

Il nuovo album siglato Soft Machine, HIDDEN DETAILS (Moonjune Records),sta riscuotendo buoni consensi. Non è facile quando il passato porta con sé musicisti eccellenti e album leggendari. Oggi i Softs sono davvero, anche per l’età che non fa sconti a nessuno, un’altra band, ma di grande qualità. Il concerto milanese del 13 settembre 2018 alla Casa di Alex lo ha ribadito.

Talvolta le leggende viventi sono più umili di molti giovani. Prendiamo ad esempio il signor John Etheridge, classe 1948 e chitarrista di livello da quasi mezzo secolo. Le sue partecipazioni ad album e gruppi sembrano più un’enciclopedia della musica che una banale “carriera” nel mondo delle sette note. John si è dimostrato nel corso della conversazione il più affabile e aperto degli interlocutori, sempre pacato, paziente, informato e, soprattutto, un vero appassionato di musica.

Il nuovo disco è stato scritto e prodotto insieme a Theo Travis.

Più o meno. Il 50% del materiale è stato scritto insieme, ma c’è stata molta improvvisazione, quindi una buona parte del disco non è composta da nessuno, in realtà! Significa che l’intero gruppo è stato coinvolto nella realizzazione del lavoro. Se ci penso bene, solo One Glove e Broken Hill le ho composte nel senso vero del termine, mentre Heart Off Guard l’ho realizzata con Theo. Comunque tutte le parti di chitarra sono improvvisate. Poi ci sono le cose di Theo. Direi che, in linea di massima, se vedi più nomi nei crediti, significa che c’è stata molta improvvisazione in quel brano. Per esempio c’è una frase di Theo in Ground Lift, il riff, ma tutti ci hanno messo sopra le loro parti e sono coinvolti in qualche modo [poi ci sono nuove versioni di due brani da altrettanti loro storici album, entrambi fir-mati da Mike Ratledge: The Man Who Waved At Trains da BUNDLES, 1975, e Out Bloody Rageous da THIRD, 1970, anticipata da una introduzione firmata anche da Travis, ndr].

Lavorate con l’editing? È una tecnica molto usata oggi. Alla fine si esce con una sintesi “digitale” dei momenti più riusciti scelti tra ore di improvvisazione.

Si potrebbe fare ma non è stato il caso di questo lavoro. In passato, con Elton Deanper esempio, era all’ordine del giorno, ma su questa volta molte improvvisazioni sono state scartate, quelle utilizzate non sono state manipolate in alcun modo.

La tua vera carriera comincia con i Wolf di Darryl Way (gruppo in cui militava anche Ian Mosley, futuro batterista dei Marillion). In seguito Allan Holdsworth ti ha notato e ti ha chiesto di sostituirlo nei Soft Machine. L’idea ti ha spaventato all’epoca? BUNDLES è un disco tutt’altro che facile da suonare!

Avevo da poco visto i Softs al Rainbow Theatre di Londra, a Finsbury Park, insieme a Larry Coryell (il “padrino” della fusion, da poco scomparso), circa un mese prima di conoscere Allan che mi chiese che cosa stessi combinando in quel periodo. “Niente di speciale”, gli risposi. Ha chiesto il mio numero e mi contattò poco dopo. Gli altri stavano cercando tra i chitarristi della scena jazz e non mi conoscevano. Per fortuna ci siamo incontrati, ma ero comunque convinto di essere perfettamente in grado di prendere il suo posto. Sono sicuro che ci sarà stata gente che magari nella propria camera da letto avrebbe potuto fare quello che suonavo io… però nel circuito musicale vero c’ero solo io. Sì, è stata una sfida! Ho dovuto allungare gli assoli, non c’era molto altro materiale! Dovevo suonare per promuovere il disco appena uscito. Ero appena riuscito ad ascoltarlo!

Usi gli spartiti durante i concerti?

No, quello è Roy Babbington, il bassista! Lui ha gli spartiti di tutto!

Ti avvicini ai 50 anni di carriera…

Esattamente 48.

Hai ancora l’esigenza di esercitarti?

Sì, ma forse è lo strumento che lo richiede. Me ne rendo conto man mano che trascorre il tempo. Ricordati che ho suonato per anni con il violista jazz francese Stèphane Grappelli: lui non lo faceva mai! Aveva circa 72 anni quando lasciai il suo gruppo, fu in quel momento che iniziò a esercitarsi perché sentiva che le dita si erano un po’ rilassate. Io, invece, mi diverto proprio a esercitarmi, almeno due ore al giorno. Anche prima dei Softs. Penso che la chitarra e il violino, specie nel jazz, richiedano molta tecnica. Vale anche per la tromba, immagino. Diciamo che è dal ’69 che mi esercito, è l’unico modo per rimanere all’altezza. Un altro motivo è che suonare è una forma di meditazione, autoconsapevolezza e rilassamento.

Mi ha sorpreso che su Spotify cinque tra i vostri dieci brani più ascoltati provengano da BUNDLES.

No, non mi sorprende molto. È stato un disco molto popolare e immagino che sia determinante la presenza di Allan Holdsworth. In America i Softs non sono mai stati popolari, mentre lui è da sempre molto seguito. Deve essere quello! Per farti capire quanto siamo insignificanti negli Stati Uniti, il nostro nome sul manifesto della Cruise To The Edge è minuscolo. Quasi non si vede! È anche vero che il gruppo non suona in America dal 1975! In Europa è un’altra storia. Italia, Francia e Germania sono nazioni che ci vedono quasi come una leggenda. Immagino quindi che sia solo per merito di Allan e dei suoi fan nordamericani.

L’intervista completa, a cura di Antonio De Sarno, è su PROG Italia n.21, disponibile qui.

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