Rocket Man – I dischi di Elton John degli anni 70: Goodbye Yellowbrick Road

È giunta l’ora di rendere omaggio a Elton John e ripercorrere i suoi fantastici anni 70.

Un estratto dell’articolo di Federico Guglielmi pubblicato su Classic Rock 79, in edicola e online!

GOODBYE YELLOW BRICK ROAD
DJM, 1973

Il primo 33 giri doppio di Elton John, settimo di studio di una produzione fino ad allora straordinaria per la qualità e la prolificità, è in genere considerato il migliore/più rappresentativo del ricco catalogo. Possibile magari non vederla proprio così, ma solo per questione di sfumature; in ogni caso, nessuno potrebbe negare che GOODBYE YELLOW BRICK ROAD sia una delle due/tre prove più rilevanti e riuscite della pirotecnica avventura dell’ormai non più Reginald Dwight e un autentico monumento alla sua sempre ispirata poliedricità di songwriting, con i testi dell’inseparabile  Bernie Taupin come ideale e (quasi?) altrettanto brillante complemento. Fu inoltre, senza dubbio, il disco che impone il Nostro come “personaggio” interessante anche al di là della musica, come sottolineato dalla super-appariscente copertina dell’illustratore Ian Beck – citazione/omaggio de Il mago di Oz – che lo raffigura mentre entra in un poster attaccato su un muro di mattoni; il glam impazzava ovunque e l’eccessivo Elton aderì con divertito entusiasmo alla moda, sfoggiando scintillanti “zeppe” rosate e giacchino kitsch di satin con tanto di nome sulla schiena (il mini-pianoforte a molla di color violetto e la nota poggiati sul marcia- piede sono comunque tocchi di classe).

Benché per molti versi parecchio “esagerati”, risultano più sobri i diciotto brani (due in medley) che sfilano nell’ora e un quarto di programma, selezionati tra i ventidue scritti per l’occasione. Piuttosto pomposo, in apertura di solchi, è di sicuro Funeral For A Friend, lo strumentale suonato al sintetizzatore dal fonico David Hentschel – un esempio del tipo di musica che Elton avrebbe gradito fosse proposta alle sue esequie: contento lui – che si spegne senza soluzione di continuità nella vivace, rockeggiante Love Lies Bleeding. A seguire, la delicata Candle In The Wind nella prima versione in memoria di Marilyn Monroe, di gran lunga meno “ruffiana” di quella di tredici annidopo per la principessa Diana, e la divertente, “old-fashioned” Bennie And The Jets, pungente satira all’industria musicale dell’epoca. Ancora una volta l’ispirazione primaria dell’album è l’America “leggendaria”, ora osservata attraverso le lenti deformanti della cultura pop e del cinema, il tutto pervaso da un sapore nostalgico che non lascia però trasparire particolari malinconie.

Simili onori si riservano solo alle pietre miliari e GOODBYE YELLOW BRICK ROAD merita ampiamente la qualifica

Già la prima facciata basta a evidenziarlo con chiarezza, ma a fugare ogni eventuale dubbio residuo su quale sia il filo conduttore di GOODBYE YELLOW BRICK ROAD provvedono le altre tre, forti di canzoni memorabili quali l’aggraziata, magica title-track, la scoppiettante Grey Seal che se alla voce ci fosse Roger Daltrey sarebbe un pezzo degli Who, la morbida, ariosa I’ve Seen That Movie Too, la All The Girls Love Alice che alternamomenti tambureggianti a pause estatiche, la frenetica Your Sister Can’t Twist (But She Can Rock’n’Roll) il cui stile non ha bisogno di spiegazioni, la vigorosa e ruvida Saturday Night’s Alright For Fighting e la chiusura con i 2’45” di Harmony, un altro episodio che fin dal titolo rivela la sua natura (per la cronaca, Beach Boys: cos’altro, se no?). Insomma, influenze molteplici come da consolidata regola, ma ottimamente amalgamate assieme e, soprattutto, “eltonjohnizzate” a dovere; del resto, quando un artista è qualificabile come Maestro, è inevitabile che tutto ciò che tocca diventi “suo”.

Così come HONKY CHÂTEAU e DON’T SHOOT ME I’M ONLY THE PIANO PLAYER, pure GOODBYE YELLOW BRICK ROAD venne inciso con un sedici piste e l’immancabile “regia” di Gus Dudgeon nel famoso Château d’Hérouville, in Francia; dopo un tentativo di lavorare in Giamaica, abortito per complicazioni di vario genere, la squadra decise di spostarsi in un ambiente dove era di casa e in due settimane, nel maggio 1973, tornò al di là della Manica con il master in valigia. Commercializzato una manciata di mesi dopo, il 5 ottobre, l’Lp fu un trionfo assoluto: raggiunse immediatamente il primo gradino delle classifiche britannica e statunitense, in pochi giorni fu acquistato da più di mezzo milione di persone e a tutt’oggi è il bestseller del catalogo di Elton John, con trenta milioni di copie vendute (otto delle quali negli USA). Nessuna meraviglia che sia stato gratificato di parecchie ristampe impinguate di materiali extra e che la più ricca, la “super deluxe” del 2014, aggiunga addirittura una decina di rarità, nove brani della scaletta interpretati da colleghi più giovani come Ed Sheeran, John Grant, Imelda May o Fall Out Boy, un intero concerto tenuto all’Hammersmith Odeon di Londra nel 1973 e un Dvd con il documentario Elton John & Bernie Taupin Say Goodbye to Norma Jean and Other Things, sempre dello stesso anno.

Simili onori si riservano solo alle pietre miliari e GOODBYE YELLOW BRICK ROAD merita ampiamente la qualifica, benché non abbia indicato nuove strade espressive, segnato svolte di carriera né generato chissà quanti tentativi di imitazione ma si sia limitato a innalzare qualcosa di già noto e celebrato a livelli forse insuperabili. Tu chiamala, se vuoi, definitiva consacrazione.

 

Federico Guglielmi

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Federico Guglielmi

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