5 band leggendarie dell’etichetta Vertigo

jade warrior album

Vertigo story è il titolo del libro dedicato alla leggendaria etichetta inglese, rappresentata dalla magica spirale in bianco e nero. In anteprima vi presentiamo le schede dedicate ad alcune delle sue band leggendarie.

Il libro, edito a breve dalla Iacobelli Editore in quasi 500 pagine, racconta la storia della creatura fondata nel 1969 da Olav Wyper, all’ombra della Philips. L’opera è stata realizzata con la consueta passione da Franco Brizi, collaboratore oggi di «Vinile», collezionista apprezzato ovunque e autore di opere stimolanti come Viaggio magico: Storia illustrata del rock progressivo italiano.

Cressida: CRESSIDA

(1970 – Vertigo VO 7)

A differenza dei compagni di scuderia Black Sabbath, per i Cressida non c’è mai stata gloria. Ignorati dalla stampa, dal pubblico, relegati erroneamente ai margini della scena musicale che conta, sono stati riscoperti solo in tempi più recenti. La formazione nasce nel 1968 per volere del chitarrista John Heyworth, che mette un annuncio sul «Melody Maker» con cui conosce il cantante Angus Cullen; la line-up viene completata dal bassista Kevin McCarthy, dal batterista Iain Clark e dal tastierista e pianista Lol Cocker, sostituito dopo una breve tournée in Germania, da Peter Jennings.

La band entra una prima volta in studio per registrare un Ep da distribuire a livello promozionale, del quale si sono purtroppo perse le tracce, che comprendeva Lights In My Mind, poi incluso in questo esordio. L’album CRESSIDA (il nome del gruppo è ispirato alla tragedia Troilo e Cressida di Shakespeare) viene concepito con estrema eleganza e presenta una bella costruzione armonica in equilibrio tra lo stile di Canterbury e la veste meno acida della West Coast.

Sono presenti raffinate partiture sinfoniche (To Play Your Little Game, Cressida), vibrazioni dinamiche (Depression, forse il pezzo più bello, e la già citata Lights In My Mind). L’intero lavoro è comunque imperniato sull’equilibrio e sulla melodia, garantiti dall’ottimo lavoro di Jennings all’Hammond, al quale si aggiungono le chitarre di Heyworth.

I due musicisti appaiono molto convincenti e comunicano tra loro in maniera istintiva, senza strafare o eccedere in virtuosismi fuori luogo. La musica dei Cressida apre al verbo della semplicità, veicolando il proprio repertorio in uno scenario romantico di indubbio fascino, collocandosi in maniera efficace e originale nella corrente musicale di inizio anni 70.

cressidra

Agitation Free: MALESCH

(1972 – Vertigo 6360 607)

Gli “agitatori” iniziali sono il chitarrista Lutz Ulbrich e il bassista Michael Gunther. La conoscenza della musica lisergica dei Pink Floyd è per loro fonte di illuminazione. La formazione, la cui sigla è inizialmente solo Agitation, si completa con il cantante Michael Duwe, che si cela dietro lo pseudonimo di John L., quasi subito sostituito da Manfred Peter Bruck, Alex Genrich (chitarra, poi nei Guru Guru) e con Christophe Franke (batteria, in seguito nei Tangerine Dream).

John L. (vero nome Manfred Peter Brück) viene allontanato per le sue intemperanze (era infatti solito presentarsi dipinto e nu- do sul palco) ed entrerà negli Ash Ra Tempel (SCHWINGUNGEN, 1972). Gli Agitation Free modificano la formazione con l’arrivo del chitarrista Jorg Schwenke, del batterista Burghard Rausch e del tastierista Michael Hoenig.

La band va in tournée, finanziata dal Goethe-Institut, suonando in Egitto, Liba- no, Cipro e Grecia, subendo la fascinazione delle inclinazioni etniche di questi Paesi. Rientrano alla base con nu- merose registrazioni e un ricco bagaglio culturale, che sarà l’essenza della loro definitiva trasformazione musicale. Il risultato di questa inebriante esperienza è MALESCH, registrato all’Audio- Tonstudio di Berlino, dove sono affiancati da Peter Michael Hamel.

Il disco, pubblicato solo in Germania, è ricco di sperimentazioni applicate alla musica etnica. La stratificazione del concept musicale e l’eclettismo della band si svelano sin dalla traccia d’apertura, You Play For Us Today, mentre altri brani sviluppano sonorità vicine allo space-rock... musica etno-elettronica rigonfia di suoni ed effetti, i cui tratti attitudinali, basati sulla libera improvvisazione, sono in grado di ipnotizzare e affascinare l’ascoltatore.

MALESCH degli Agitation Free

Jade Warrior: JADE WARRIOR

(1971 – Vertigo 6360 033)

Il percussionista e flautista Jon Field e il chitarrista e polistrumentista Tony Duhig provengono dai July, band psichedelica inglese che nel 1968 licenzia l’omonimo album, ricercato dai collezionisti di mezzo mondo. Come avviene di sovente, gli scarsi risultati portano allo scioglimento della band. Ai due si aggrega Glyn Havard, basso/voce, e nel 1970 nascono i Jade Warrior.

Il nome viene suggerito a Field dalle musiche per un balletto giapponese, intitolato proprio Jade Warrior, peraltro ben raffigurato dalla grafica di copertina. Il “Guerriero di Giada”, gruppo sorprendentemente versatile, capace di fondere la tradizione folk blues anglosassone con la cultura orientale, è sostenuto da Patrick Campbell-Lyons, divenuto produttore e talent-scout dopo la comune collaborazione in LOCAL ANAESTHETIC dei Nirvana (1971). Questo esordio talvolta tradisce qualche richiamo ai primissimi Jethro Tull di THIS WAS, però mostra una propria identità, sempre attenta a sperimentare, sviluppare e aprirsi a nuovi orizzonti sonori.

I Jade si distinguono per la capacità di far coesistere le trame hard blues con le numerose contaminazioni, dai più disparati ritmi afroamericani, con interludi psichedelici e minimalisti, alla commistione con i tratti più acustici ed esotici, come avviene nel brano di apertura, The Traveller. La parte musicale più imponente viene descritta in A Prenormal Day At Brighton, dove i riff granitici di Duhig sono il primo vero biglietto da visita. Atipiche ma originali sonorità etniche/afro/psichedeliche sono affrontate nell’eccellente Masai Morning, Windweaver e Dragon Fly.

La seconda facciata li vede più vicini alle radici tradizionali: Petunia, Telephone Girl (brano di apertura dell’omonimo album di esordio degli Assagai, Vertigo 1971) e Psychiatric Sergeant, dove il blues di tipico stampo inglese è ben congegnato con il flauto di Field in prima linea. A Slow Ride e alla suggestiva Sundial Song spettano la chiusura dell’album, dove torna evidente la presenza di sonorità orientali su soluzioni psichedeliche. Con questo album d’esordio, ai Jade Warrior va dato atto di aver guardato oltre il recinto della tradizione, mentre alla Vertigo va riconosciuta la capacità di saper andare al di là dei propri interessi commerciali.

Jade Warrior

Still Life: STILL LIFE

(1971 Vertigo 6360 026)

Questa rimane una delle formazioni più misteriose messe in catalogo dalla Vertigo. Il bassista Graham Amos e il vocalist Martin Cure, i due fondatori, iniziano la loro esperienza musicale nel 1963 nei dintorni di Coventry. La prima band si chiama Sabres, poi Peeps con l’arrivo del chitarrista Roy Albrighton e del batterista Paul Wilkinson.

I Peeps incidono per la Philips quattro 45 giri, poi nel 1967, come Martin Cure & Peeps, registrano il singolo I Can Make The Rain Fall Up / It’s All Over Now. Dopo tanta gavetta in piccoli club, nel 1968 Amos, Cure e Albrighton reclutano il tastierista Terry Howells e il batterista Gordon Reed e prendono il nome di Rainbows.

Con questo assetto nel 1969 incidono due 45 giri per la CBS. Durante un piccolo tour in Germania, Albrighton decide di rimanere in terra teutonica, dove più tardi formerà i Nektar. Tornati alla base i Rainbows si ritrovano anche senza batterista, quindi assumono Alan Savage. I tre superstiti cambiano ancora sigla per evitare possibili omonimie, e poco prima di entrare nei Nova Sound Recording Studios (Marble Arch/Londra), cambiano nome in Still Life.

L’omonimo Lp, prodotto da Stephen Shane, è contrassegnato dal suono basato marcatamente sulle tastiere, all’interno del quale vige un rock progressivo decadente e malinconico. I tratti bucolici e folkeggianti hanno sfumature dark e l’iniziale People In Black rispecchia in tutto e per tutto lo stato d’animo della band.

Altri momenti interessanti sono October Witches e i conclusivi Dreams e Time. Questi due brani sono i più oscuri e rappresentativi dell’intero album, trasmettono potenza e tensione emotiva con la voce in falsetto che rievoca lo stile tanto caro agli Uriah Heep, anche se Martin Cure non ha la stessa estensione di David Byron. In definitiva il risultato è accettabile ma niente più, anche se appare in grado di assecondare i palati più fini. Nel momento in cui il disco viene distribuito la formazione si è già sciolta.

Dei quattro componenti solo Cure prosegue l’attività in maniera professionale con i Cupid’s Inspiration, formazione minore del fitto panorama britannico. Particolare il design di copertina: ai fiori sulla front cover, si contrappone un macabro teschio sul retro, ed è forse questo il motivo per cui nel corso degli anni gli Still Life sono stati spesso definiti “discepoli” del dark-sound nello stile dei Black Sabbath o dei Black Widow. Niente di tutto ciò.

still life still life

Colosseum: VALENTYNE SUITE

(1969 – Vertigo VO 1)

Il 7 novembre 1969 esce VALENTYNE SUITE dei Colosseum, nati all’interno dei collaboratori del bluesman John Mayall durante la registrazione dell’Lp BARE WIRES del 1968. Di quella formazione da studio fanno parte il sassofonista Dick Heckstall-Smith, il bassista Tony Reeves e il batterista Jon Hiseman, provenienti dal jazz e dal blues inglese. I tre musicisti chiamano il tastierista Dave Greenslade e il chitarrista Jim Roche, quest’ultimo rimpiazzato quasi subito da James Litherland.

Il quintetto nel marzo del 1969 realizza il primo Lp su Fontana, THOSE WHO ARE ABOUT TO DIE SALUTE YOU. L’esordio, seppur ancor vincolato agli stilemi del british blues, anticipa le istanze progressive, con un innovativo mix di jazz e rock. Nonostante l’accoglienza positiva, la band lascia la Fontana per entrare in forze alla Vertigo, nata con lo scopo di dare voce a nuove istanze musicali e nuovi talenti. I Colosseum sono tra i primi a farne parte, tanto che questo album coincide con l’esordio dell’etichetta.

La band mette in atto un’opera di grande spessore musicale, compatta e raffinata. Il primo lato è caratterizzato da brani di grande pregio con influenze funky-blues, come The Kettle o Butty’s Blues, mentre la voce calda di Litherland si immerge nelle insolite trame ipnotiche di Elegy, un pezzo strambo quanto geniale, sostenuto dall’indiavolato tempo di batteria. Chiude la facciata l’ottima The Machine Demands A Sacrifice.

Nella seconda parte la dimensione musicale si dilata, diventa sontuosa, dominata dall’enfatico lavoro alle tastiere di Greenslade, arricchito dai picchi furiosi dei fiati di Heckstall-Smith, dall’irriverente timbrica del basso di Reeves e dall’immenso Hiseman alla batteria. VALENTYNE SUITE è una pagina musicale memorabile e stupefacente, capace di condensare suoni e stili di varie origini che vanno a sublimare la nascente commistione tra jazz e progressive rock.

Suddivisa in tre sezioni, January’s Search, February’s Valentyne e The Grass Is Always Greener, la suite rimane ancora oggi un capolavoro assoluto, tra le pagine più eleganti della nuova onda sonora. A rendere più solenne la pubblicazione c’è il bellissimo scatto fotografico (per lui è un battesimo) di Marcus Keef, che legherà il suo nome anche ad altre etichette come la Neon e la Nepentha. VALENTYNE SUITE ottiene consensi unanimi e apre magnificamente la storia di quella che verrà immediatamente identificata come swirl label, l’etichetta discografica a forma di spirale. La più iconica degli anni 70.

valentyne suite colosseum

Questo articolo è tratto da «Prog» n. 36, disponibile in tutte le edicole e sul nostro store online.

prog 36
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