Van Der Graaf Generator: la storia di ‘Refugees’

Ripercorriamo la storia del più grande classico dei VDGG, tracciato dalla penna di Peter Hammill e diventato un inno di speranza per tutti i fuggitivi. 

Il 3 settembre 2021 è uscito l'atteso cofanetto THE CHARISMA YEARS per celebrare i gloriosi anni Settanta dei Van Der Graaf Generator, inaugurati dal loro secondo album: THE LEAST WE CAN DO IS WAVE TO EACH OTHER (1970). Vi abbiamo parlato della ricca collezione di tracce remasterizzate e contenuti inediti del box set, tra cui non mancano nuove versioni di perle come Killers, Pilgrims e l'intramontabile RefugeesQuest'ultima continua a rivivere tra le pietre miliari del rock, pregna del trasporto emotivo, della drammaticità e della carica epica che la voce del frontman Peter Hammil può donare. Il tutto incorniciato da un testo fortemente attuale per l'epoca e da una combinazione di flauto e violino che ne esalta la dimensione romantica e antica. 

E l'immagine di anime in fuga alla ricerca di un futuro migliore si traspone nell'ipnotica copertina dell'album, ispirata a una frase del pittore neo-romantico John Minton: "Siamo tutti immersi in un mare di sangue, e il meno che possiam fare è salutarci l’un l’altro". Immaginiamo i musicisti affollati su una zattera come naufraghi in un mare in tempesta, dominato da un generatore che raccoglie i fulmini nel cielo violaceo. Lo stesso Hammill, in procinto della pubblicazione dell'album, ha riportato nelle sue note diaristiche del 31/12/1969 le seguenti parole:

Beh, è l’ultimo giorno d’un nuovo decennio, e davvero sto solo salutando, con un debole sorriso sul volto e un lacrima esitante pronta a cader giù…

Non è un caso che il riferimento sia a un addio, in quanto Hammill riflette nel testo di Refugees la sua esperienza autobiografica. In particolare si rivolge a quel verso della canzone che cita "L'Ovest sono Mike e Susie". 

Per sei mesi ho condiviso un appartamento con Mike e Susie, che sono tra i miei più vecchi amici. Quando è arrivato il momento della partenza, sono stato invaso dalla malinconia che normalmente accompagna il trasloco da 'casa' e dai ricordi fisici che conserva, accresciuti in questo caso dalla consapevolezza che ci stavamo impegnando a una separazione in cui i mesi avrebbero potuto facilmente trasformarsi in anni. In questa consapevolezza, le ultime vestigia di speranza giacevano solo in una futura utopia e ricongiungimento delle mani.

Il messaggio si estende a una condizione universale di fuga e salvezza, soprattutto in relazione al periodo storico e all'emigrazione dei dissidenti dell'Est Europa. Si stima infatti che, nel 1971, il numero più alto di profughi in Italia arrivava dalla Jugoslavia. Così Hammill intreccia l'intimità emotiva con il contesto politico, in una riflessione che guarda all'Ovest come "il luogo in cui io amo, la patria dei profughi" e ancora "il luogo dove tutti i giorni, un giorno o l'altro finiranno". Così, un testo radicato oltre cinquant'anni fa trova contemporanea contestualizzazione ora più che mai. 

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