BRUCE SPRINGSTEEN: The River – un fiume di possibilità

John Lennon giudicò Hungry Heart di Bruce Springsteen la cosa più fresca ed emozionante ascoltata dopo i Beatles. E le lo dice lui…

Confezione apribile, ricca di foto e immagini nuziali da un’America sparita, istantanee scattate in studio e in una Manhattan spesso in bianco e nero: THE RIVER è uno di quei doppi in vinile che nel giro di pochissimi anni lasceranno il campo ai Compact disc, trasformandosi in dischetti a lunga durata. La registrazione possiede un suono limpido e aperto, più cristallino e definito rispetto al disco del 1978, che trovava la sua forza anche nei tamburi asciutti e nelle sue frequenze medie. Le canzoni, mai così tante insieme spedite da casa Springsteen al suo pubblico, guardano avanti e scavano nella vita di personaggi che dopo il matrimonio iniziano a confrontarsi con nuove e crescenti responsabilità. Ci sono le strade di sempre, le fabbriche, le vecchie macchine della scenografia springsteeniana.

Il senso di solitudine che attraversa le tante ballate ha come contraltare un mucchio di rock’n’roll che saettano spaccando la sceneggiatura e proponendo lampi di festosa coralità, quasi che l’autore si curasse di non lasciare mai troppo soli i soggetti più ombrosi della sua collezione. Così, di frequente, in un gioco di porte che si aprono e si chiudono nel giro di pochi o tanti minuti (brevissimi certi lampi di energizzante rock, assai diluiti i momenti in cui si raccontano pagine più drammatiche), si passa dagli idranti di una qualsiasi strada di New York o di Camden, NJ, agli interni che si fanno set sempre più protagonisti dell’azione, soprattutto quando l’età più matura del narratore e dei personaggi presenti nelle storie suggeriscono dinamiche nuove.

Tutto accade nell’ottobre del 1980, durante la campagna elettorale in cui negli Stati Uniti si preannuncia il passaggio da Jimmy Carter a Ronald Reagan. Springsteen e la sua band sono una meravigliosa macchina tenuta in strada dal Boss e da Steve Van Zandt, accanto ai quali c’è Jon Landau. Il suono nato in una cantina di E Street, a Belmar, viaggia irrefrenabile, affinato nel corso tour del 1978, che attraverso 115 concerti tutti nel Nordamerica ha portato in giro le ombre e le luci dei racconti difficili e dei pochi bagliori di DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN.

Nove mesi prima, al Madison Square Garden di New York, durante i concerti settembrini per la causa No Nukes, Springsteen aveva chiuso i suoi decisivi anni Settanta (emerso dal nulla, poi quattro dischi e l’ascesa a rock star di primo piano) proponendo il brano inedito che avrebbe dato il titolo al suo quinto lavoro, il primo degli anni Ottanta. Si era capito lì, pur ancora lontani dalla pubblicazione del disco, che nelle intenzioni e nel suono qualcosa stava cambiando: dominata da una dodici corde acustica e da un’armonica a bocca e tenuta insieme dal pianoforte di Bittan sempre più protagonista, la canzone parlava di lavoro e famiglia, prendendo spunto dalle canzoni del disco precedente ma al tempo stesso aprendosi a possibilità finora inesplorate.

Tratto dal prossimo numero Classic Rock Glorie Extra dedicato al Boss! Dal 19 luglio in edicola e online sul sito di Sprea.it

 

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Mila Spada

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