JOHN MELLENCAMP parla di … EREDITA’

Che tipo di eredità credi che avrai lasciato, una volta uscito di scena?
L’idea che un giorno qualcuno si preoccuperà di sapere chi è stato John Mellencamp è follia.
Quando sei giovane, sei tutto preso da questa fissazione di suonare per lasciare un’eredità.
Poi cresci e ti rendi conto che non esiste nessuna fottuta eredità da lasciare.
Le cose che la gente ricorderà sono queste: c’era una band chiamata Beatles,
un’altra chiamata Rolling Stones e un tizio chiamato Bob Dylan. Tutto qui.
E i Clash? Mettetevi in riga ragazzi, siete soltanto una nota a margine, come tutti noialtri.

Eppure per registrare il tuo ultimo album, no better than this,
hai usato luoghi mitici come i Sun Studios di Memphis e la camera d’albergo di San Antonio,
Texas, dove Robert Johnson incise le sue canzoni.
Non c’era in questa scelta l’intenzione di agganciarti a qualcosa di eterno?
Mai pensata una cosa del genere.
L’idea di usare quelle location è molto più pragmatica.
Abito lì vicino e mi sono detto: non sarebbe bello andarci a suonare?
Ti dirò che in ciascuno di questi luoghi c’era davvero un’atmosfera unica.
Particolarmente ai Sun Studios, alle tre del mattino, quando il resto del mondo dorme in silenzio.
Tu esci fuori e non c’è neanche un rumore, neppure un’auto che passa.
Solo zanzare. Una cosa fantastica.

Che ne pensi dello stato in cui versa il rock’n’roll oggi?
Penso che il rock’n’roll sia finito da un pezzo.
Non ci saranno più dei nuovi Beatles, un nuovo Dylan o un nuovo Johnny Cash.
Nessuna rivoluzione paragonabile al Punk o al Grunge verranno più a salvare il music business.
È stato fatto tutto.
Le case discografiche hanno deciso di voltare le spalle agli artisti che hanno una storia,
come me ad esempio, e si sono messe a cercare ragazzotte in vestiti attillati.
Il che va bene.
Quelli come me sono diventati trofei da esporre su uno scaffale:
forse eravamo diventati troppo costosi da gestire.
Meglio prendere queste ragazzine di sedici o diciassette anni,
con i genitori che gli fanno da manager, e fregarle come si faceva con gli artisti neri
negli anni Venti o Trenta.
E poi c’è Internet, che io considero l’invenzione più pericolosa dopo la bomba
atomica. Internet ha autorizzato la gente a rubare la musica.

Così, ti consideri uno degli ultimi superstiti di un mondo finito?
È così. Perfino all’interno della mia generazione.
Quando ho iniziato, eravamo un sacco.
Adesso siamo rimasti in pochissimi, Tom Petty, Elvis Costello, Springsteen, io.

C’è la diffusa convinzione che il rock’n’roll sia una faccenda per giovani, eppure
negli ultimi tempi la musica più stimolante arriva da artisti della tua generazione.
Negli anni Sessanta e Settanta la gente era convinta che non sarebbe
mai stata migliore di com’era allora.
Io invece non ho nessun problema nell’essere migliore di quanto non fossi da giovane,
perché allora ero veramente terribile.
Arrivai a New York dall’Indiana, per frequentare un liceo artistico, e avevo con me un demotape. Ero un cantante da locali, cantavo qualunque cosa fosse popolare in città.
Non mi era mai balenata per la mente l’idea che avrei potuto vivere di musica,
tantomeno incidere dei dischi.
Cantavo perché ero capace di farlo e perché c’erano le ragazze.
L’idea di pianificare ciò che avrei fatto della mia vita fino a oggi non mi sfiorava neppure,
anzi probabilmente neanche pensavo che avrei vissuto fino alla mia età.
Quando mi offrirono un contratto discografico, pensai:
“Volete davvero che io scriva delle canzoni?”.
In tutti i miei primi dischi praticamente ho imparato a scrivere canzoni.
E cazzo, ci sono riuscito.
Non sarò bravo quanto Springsteen o Petty, ma sono meglio di tanti altri.

All’inizio il tuo soprannome era Little Bastard. Era un nomignolo appropriato per te?
Negli anni Ottanta il mio produttore era Don Gehman.
In realtà il suo vero compito era evitare che facessi delle cazzate:
a quell’epoca ero fuori di testa e parecchio incazzato.
Ce l’avevo sempre con qualcuno e non facevo che fare a botte e imprecare,
non ero una persona piacevole.
Quindi sostanzialmente il suo compito era dirmi: “John, stai esagerando”.

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Perché tutta questa rabbia?
Credo sia il mio dna. Sono cresciuto in mezzo a uomini incazzati.
Mio padre, mio nonno, i miei zii, erano tutti così.
Se sbagliavi con loro, la pagavi. Ti borbottavano qualcosa tra i denti e ti colpivano.
Non si perdeva tempo in chiacchiere, era una roba tipo:
“Chiudi quella cazzo di bocca!”, e subito partiva il cazzotto.
L’idea che mi ero fatto è che avrei provato a essere un uomo migliore,
poi intorno ai trent’anni mi accorsi che non lo ero diventato per niente.
Adesso però non faccio più quel genere di cose, non tanto almeno.
Sono più un vecchio irritabile.

C’è stato un momento della tua vita nel quale ti sei sentito indistruttibile?
Certo. Ancora oggi a volte mi capita di pensarlo.
Ma nel periodo a cavallo fra Scarecrow (1985) e Big Daddy (1989) veramente ho pensato
di essere invulnerabile. Poi ho avuto un infarto.
Cazzo, quella cosa mi ha lasciato di sasso.
Per i due o tre anni che seguirono, non ho fatto altro che starmene a casa a crescere i miei due figli. E quelli sono stati i migliori anni di tutta la mia vita.

Cosa c’è nel tuo futuro?
M’interessano un sacco di cose.
Penso che questo sia il vero problema di un sacco di persone – il fatto che perdono interesse
verso la vita.
Più invecchio, meno ho paura della morte. Andremo da qualche parte, dopo?
Non lo so e sinceramente non mi interessa saperlo. Se c’è un’altra vita dopo questa, lo scoprirò.
Se non c’è, va bene uguale, ho fatto una bella corsa.

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