L’altra musica: intervista ad ALAN SORRENTI | Ciao 2001

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Foto tratta dal nuovo numero di CIAO 2001, da venerdì 14 giugno in edicola!
“Gli inizi sperimentali, poi la svolta pop che molti non gli perdonarono: per ALAN SORRENTI, ciò che contava era cambiare e spingersi oltre ogni limite. Rimpianti? Uno solo…” l’intervista completa sul prossimo numero di CIAO 2001!

Discograficamente per te tutto ha inizio nel 1972, con una sequenza di album che si apre con ARIA, prosegue con COME UN VECCHIO INCENSIERE e si conclude con ALAN SORRENTI del ’74. Come avevi iniziato a cantare e che cosa avevi fatto a Napoli fino a quel momento?

Ho iniziato verso i sedici, diciassette anni. Avevo formato una band e facevamo dei pezzi di Bob Dylan e uno dei Traffic... io la chiamavo “l’altra musica” e mi divertivo molto, perché tiravo fuori quell’energia che poi ti accorgi di avere solo sperimentando. C’era un club al Vomero, dove si esibivano I Volti di Pietra, e si potevano suonare solo due o tre pezzi. Io ci mettevo molta energia e andavo oltre. Seguivo un cantante che aveva l’opposto della mia voce, ma esprimeva lo stesso mio orgasmo in scena: Roger Chapman dei Family.

Lo conosco bene.

Credo di aver visto a Londra tre o quattro concerti dei Family. Vicino al palco, aspettavo il momento in cui Roger batteva il tamburello sull’asta, lo afferrava e lo lanciava in mezzo al pubblico. La sentivo, quell’energia, lui la esprimeva sempre in quel pezzo che lo mandava oltre. E anch’io scaraventavo il microfono con l’asta e tutto tra il pubblico. Questo piaceva molto ai ragazzi e al gestore del locale, piaceva meno ai Volti di Pietra, perché gli strumenti erano i loro e non mi rendevo conto di fare danni. Era divertente. Intuivo che nella musica c’era qualcosa di molto forte, che mi coinvolgeva fisicamente e mentalmente. Poi è apparso un personaggio fondamentale per la mia crescita musicale, Umberto Telesco, il fotografo delle prime copertine, da ARIA a SIENTEME. Avevamo un rapporto creativo fortissimo, nel suo studio mi faceva ascoltare l’“altra musica”, cose che in Italia non arrivavano. Al Vomero, nel negozio di dischi anche di importazione dall’Inghilterra gestito da Gianni Cesarini arrivavano album che Umberto Telesco subito si accaparrava, come quelli di Tim Buckley, tipo STARSAILOR.

E per te cosa significò?

Si aprì una porta. Purtroppo in America, nel ’76, non potei incontrarlo. Tim morì proprio allora.

Di cosa avresti voluto parlare con lui?

Non ne ho la minima idea, era così intenso, non so proprio in che modo avrei potuto cominciare, mi sarebbe bastato incontrarlo e dargli la mano. È stato un incontro ravvicinato... a distanza però... Quando l’ho ascoltato la prima volta ho detto, “Vorrei seguire questa strada, seguire la sua luce, vorrei spingere la mia voce oltre ogni limite”, era quello che lui mi dava e che mi ha insegnato. Aveva una tecnica spaventosa, la mia al confronto era un niente. Ogni suo album era diverso, era un nuovo viaggio, una nuova scoperta. E per gran parte della mia produzione ho rispettato questo metro: cambiare. Non solo nel periodo prog, anche dopo.

Tu sei apparso sulla scena musicale in un momento in cui erano i gruppi a portare il “cambiamento”.
Sì, è vero.

In Italia questi gruppi erano il Banco, gli Osanna, Il Rovescio della Medaglia, ragazzi che non erano per niente inferiori agli inglesi. Avevamo comuni radici che affondavano nel folklore, come per i Jethro Tull. Il rock parte dal folklore. Pensi sia per questo che Napoli è stata così importante? Come lo hai vissuto, da solo, senza un gruppo di supporto, quando hai realizzato i primi dischi?

Una band l’avevo. C’era Tony Esposito che mi seguiva dall’inizio e con il quale abbiamo fatto musica ed esplorato, e che con me ha avuto modo di sviluppare il suo cammino, la sua strada. Non avendo un mio gruppo, era agevole scegliere i musicisti come incontri di energie che andavano nella stessa direzione. In ARIA c’erano Tony e il massimo violinista elettrico, Jean Luc Ponty, con una differenza sostanziale: lui era tecnicamente preparatissimo, io per niente, ma imparavo e sono stato fortunato. Ci riuscivo perché seguivo la mia energia nella voce e la tecnica è venuta in seguito, in un’America che mi ha insegnato a essere un “recording artist” e non solo un “performing artist”. Formavo un organico a seconda dell’album, ma era essenziale che fossimo tutti in sintonia…

…continua sul terzo numero di CIAO 2001, disponibile online e in edicola dal prossimo venerdì!

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