6 dicembre 1968: esce uno dei più grandi dischi del rock!

Il 6 dicembre del 1968 i Rolling Stones pubblicano BEGGARS BANQUET, l’album che segnerà l’inizio del loro periodo migliore e cambierà la storia del rock.

51 anni fa usciva BEGGARS BANQUET, l’album che cambiò il corso della carriera dei Rolling Stones (di cui vi avevamo raccontato il ritorno alle scene qui), e probabilmente della storia del rock.

Che altro potrebbe fare un povero ragazzo, se non cantare in una rock’ n’ roll band?” (da Street Fighting Man). Del blues, per esempio. O ballate country/folk. Di tutto questo, e di molto altro, è fatto BEGGARS BANQUET, settimo album degli Stones, che chiude dei cicli e ne apre altri.

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È infatti il primo senza Andrew Loog Oldham e con un nuovo produttore, Jimmy Miller, che resterà per i successivi (splendidi) quattro. Ma è anche l’ultimo con Brian Jones che, peraltro, dà un contributo davvero risicato (più all’armonica che alla chitarra). Reduci dalle persecuzioni della polizia per le note vicende legate alle droghe, Richards e Jagger si impossessano definitivamente della leadership e riescono a scrollarsi di dosso qualche fregola psichedelica di troppo apparsa su THEIR SATANIC…

Firmano tutti i brani a eccezione di Prodigal Son, un blues del 1929 di Robert Wilkins (il primo musicista in assoluto ad aver intitolato Rolling Stone una canzone).

Keef fa un gran lavoro alle chitarre, con un fantastico mix di acustico, elettrico e slide (anche se si vocifera di una possibile partecipazione, non accreditata, dell’allora sconosciuto Ry Cooder), mentre Mick si conferma non solo il vocalist sguaiato, strascicato e versatile che conosciamo, ma anche autore di testi molto interessanti tra cui la sboccata Parachute Woman (“donna paracadute, unisciti a me per una cavalcata / ti darò una botta a Dallas / e tornerò hot in metà del tempo”) e l’iconica Sympathy For The Devil: “Lascia che mi presenti / mi fa piacere incontrarti / suppongo tu conosca il mio nome / ma ciò che ti intriga / è la natura del mio gioco”.

Più che un inno al satanismo, un’esplorazione nella parte più oscura dell’essere umano che si integra alla musica in maniera esemplare: con gli instancabili ospiti Nicky Hopkins al piano e l’africano Rocky Dzidzornu alle congas, il brano è talmente ipnotico da condurre l’ascoltatore verso una sorta di trance, man mano che si intensificano gli “uh-uh-uh” del coro, composto dai componenti del gruppo e da Anita Pallenberg.

L’altro pezzo celebre è quello che apre il lato B, Street Fighting Man: nato da un’idea bizzarra di Richards, che incide su un semplice registratore a cassette la sua chitarra acustica e il set minimale di Charlie Watts, si arricchisce grazie al sitar e la tamboura di Jones e allo shehnai (una specie di oboe) di Dave Mason dei Traffic.

Ma a parte i due brani-civetta, c’è altro materiale di assoluto pregio. Come Dear Doctor, ballata country/blues con florilegio di bottleneck, armonica e un canto che passa dal volutamente stonato al falsetto (e il Delta del Mississippi non è mai stato così vicino) o la concitata Stray Cat Blues, che dà il via al gran finale: dapprima la rurale Factory Girl (con Rick Grech al violino e Watts alle tabla), infine Salt Of The Earth, con la prima quartina cantata da Richards e conclusa da un coro gospel su tempo raddoppiato.

Alcune strategie promozionali sono discutibili, a cominciare dall’assenza nel disco di Jumpin’ Jack Flash, inciso durante le stesse session, che il gruppo decide di pubblicare esclusivamente su singolo (n. 1 in Inghilterra e n. 3 negli States).

Poi la copertina. L’idea del lurido bagno di un’officina meccanica ricoperto da scritte sul muro viene rigettata dalla casa discografica col risultato che, dopo un rinvio di tre mesi, gli Stones si arrendono e il disco esce con un artwork completamente diverso: semplici scritte su sfondo bianco tipo partecipazioni di nozze (la cover originale tornerà nelle ristampe degli anni 80).

Infine, la decisione di non mandare in onda il film “The Rolling Stones Rock And Roll Circus”, condiviso con star come John Lennon, gli Who, Eric Clapton, i Jethro Tull e altri (troverà una stampa ufficiale solo nel 1996).

Nonostante tutto questo, BEGGARS BANQUET conferma il terzo posto in patria e si accontenta del numero 5 in America. Ma, soprattutto, sigilla la rinascita degli Stones, traghettandoli verso il periodo più fertile di tutta la loro carriera.

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