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TRANSFORMER: come Lou Reed divenne una star

David Bowie fu per Lou Reed l’amico che lo aiutò a scrollarsi di dosso l’ingombrante passato e a diventare un protagonista degli anni 70. Ecco la storia di TRANSFORMER:

Dopo un esordio da solista non esattamente epocale, Lou Reed non poteva permettersi un secondo passo falso. Lo sapeva lui e lo sapeva anche David Bowie, suo sincero estimatore oltre che compagno di etichetta appena approdato al successo, che con il consueto mix di generosità e voglia di protagonismo si organizzava per produrlo assieme a Mick Ronson, cruciale partner in crime negli Spiders from Mars; se vogliamo, pure un sincero atto di riconoscenza, perché entrambi erano stati notevolmente influenzati dai Velvet Underground.

Così, nell’estate del 1972, ai Trident Studios di Londra venivano immortalati su nastro undici episodi che, con personalità e carisma davvero speciali, interpretavano lo Zeitgeist glam di quei giorni.

Per non lasciare dubbi, l’orientamento del disco sarebbe stato sottolineato dal titolo e dall’iconica copertina, sulla quale troneggia uno scatto di Mick Rock, per non dire delle due foto “equivoche” e provocatorie di Karl Stoecker poste sul retro.

Album-cardine del rock dei 70 e non solo, TRANSFORMER non lamenta reali cadute di tono e contiene Perfect Day e Walk On The Wild Side, forse i più celebri dei (pochi) brani di Lou Reed conosciuti dal pubblico generico. Il primo è una stupenda ballad sospesa tra estasi e malinconia nella quale alcuni hanno voluto vedere un’ode “occulta” all’eroina (tesi verosimile, ma sempre smentita dall’autore), il secondo un confidenziale rhythm and blues “mutante” dedicato alla fauna di New York e in particolare a quella che frequentava la Factory di Andy Warhol, con riferimenti espliciti a transessualità, droga e marchette.

Pazzesco e magnifico che sia stato scelto come singolo di lancio (con Perfect Day sul retro) e che abbia goduto di un’intensa programmazione radiofonica, con conseguente ascesa delle classifiche fino al n. 10 in UK e al n. 16 in USA.

Ridurre il 33 giri solo a questo pur formidabile uno-due sarebbe però un’eresia, giacché la scaletta offre molto altro. Ad esempio, l’iniziale, scoppiettante Vicious, con un tiro alla Sweet Jane, e la morbida e quasi bowieana Satellite Of Love, che però (come l’articolata, brillante Andy’s Chest, affettuoso omaggio al mentore Warhol) era stata scritta all’epoca dei Velvet Underground.

Ancora, il tris di rock’n’roll composto da Hangin’ Round, Wagon Wheel e I’m So Free, all’insegna di ammiccamenti che avranno suscitato l’invidia di Marc Bolan; Make Up, caratterizzata dalla tuba di Herbie Flowers – altrove eccellente bassista – che gioca sempre con l’ambiguità, ma con atmosfere più pacate; il breve e curioso intermezzo filo-cabarettistico New York Telephone Conversation e la conclusiva Goodnight Ladies – ancora con la tuba di Flowers – in cui Reed veste i panni del crooner da ore piccole.

Pubblicato nel novembre del 1972, TRANSFORMER raccoglieva comprensibilmente e giustamente consensi: 29° in classifica negli Stati Uniti, 13° in Gran Bretagna, addirittura 1° in Francia, con centinaia di migliaia di copie vendute. Da qui in poi, al di là degli inevitabili alti e bassi, il nome Lou Reed non sarebbe stato più sinonimo di “beautiful loser”.

Potete trovare l'articolo completo, firmato Federico Guglielmi, e fare un viaggio nella discografia di Lou Reed, nel nuovo numero di «Classic Rock», in edicola e sul nostro store online.
Federico Guglielmi

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Federico Guglielmi

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