“Eravamo pazzi e vanitosi”. Roger Taylor e Brian May si confessano

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Brian May e Roger Taylor ripensano ai 50 anni dei Queen: l’incredibile viaggio di quattro giovani musicisti che conquistarono il mondo animati da “un’autostima quasi folle e una fede incrollabile”.

Oggi, quei quattro ragazzi sul nastro sono ridotti a due: Mercury è morto nel 1991, mentre John Deacon si è ritirato dal gruppo e dalla vita pubblica alla fine degli anni 90. Restano solo May e Taylor, cuore pulsante dell’attuale incarnazione dei Queen con Adam Lambert come frontman, nonché custodi dell’eredità del gruppo. “Che il pubblico ci ami ancora così tanto mi dà una grande gioia”, mormora Taylor. “Ne resto sempre sorpreso”.

Roger Taylor è sempre sembrato il Queen più a suo agio nel ruolo, e oggi, ciarliero e con la barbetta candida e curatissima, conferma quest’idea. “È un lavoraccio, ma mi sono sempre sforzato di trarre il maggior divertimento possibile da ogni situazione”, riflette parlando dei suoi 50 anni nel gruppo. “Da quel che sappiamo, ognuno di noi ha solo una vita, per cui dovresti godertela. Io l’ho fatto

Ti capita mai di pensare: “Cinquant’anni. Come diavolo è successo?”.

Incredibile, vero? Dopo che perdemmo Freddie, io e Brian pensammo entrambi: “È finita”. E poi invece gli eventi hanno cospirato per farci andare avanti. Ogni volta che ci diciamo: “È fatta. È stato tutto meraviglioso”, succede qualcosa di nuovo.

Hai incontrato Brian May la prima volta nella jazz room dell’Imperial College a Londra, nel 1968. Avevate già il sogno di conquistare il mondo, o pensavate solo alla possibilità di fare qualche serata e rimorchiare ragazze?

Be’, anche queste sarebbero state valide alternative, ma in effetti volevamo avere un successo schifoso. È la prova di quanto fossimo follemente vanitosi. Quando sei giovane, è sempre meglio essere arroganti e sognare in grande, perché nessuno ti regalerà mai niente.

Sul tuo profilo Instagram ci sono delle bellissime foto di te e Freddie alla bancarella che gestivate assieme a Kensington Market alla vigilia di Natale del 1969. Quand’è che l’hai incontrato la prima volta?

È successo nel mio appartamento a Shepherd’s Bush. Era un amico dell’Ealing College di Tim [Staffell, cantante e membro con May e Taylor degli Smile, il gruppo pre-Queen,  ndr]. Era solo un conoscente. Aveva delle ambizioni musicali, ma noi sapevamo suonare abbastanza bene e non eravamo del tutto convinti che lui sapesse cantare. Comunque, la sua tenacia e la determinazione nello scrivere cose tutte sue era eccezionale. Ovviamente poi diventammo amici, perché gestivamo la bancarella assieme. Dividevamo i soldi, e ci arrangiavamo per mangiare.

Com’era a quei tempi uscire la sera con Roger Taylor e Freddie Mercury? Andavate nei locali fighetti alla moda?

No, non potevamo permettercelo. Ce ne andavamo al pub, magari incontravamo qualche ragazza e cercavamo di farci offrire da bere.

Il primo concerto dei Queen fu il 27 giugno a Truro, dove sei nato. Cosa ricordi?

Il concerto l’organizzò mia madre. Era per la Croce Rossa. Il pubblico non sapeva che dire dell’ancora-acerbo-Freddie, che era incredibilmente sfacciato.

È vero che in quel periodo i Genesis cercarono di strapparti dai Queen?

Be’, m’invitarono in studio per sentirli, e poi andammo in un pub. Non è che mi dissero: “Ti va di unirti a noi?”, ma ebbi l’impressione che fosse quello che volevano, perché il batterista li aveva appena mollati. Sono delle persone squisite, ma a essere sincero non mi sono mai piaciuti come musica. Troppo prog. Invece, ebbi un’offerta molto buona da part di Ian Hunter e Mick Ronson per un progetto che si doveva chiamare Hunter-Ronson-Taylor. Sarebbe stato una bomba.

Quando ascolti i primi due o tre dischi dei Queen, cosa vedi?

Un processo di maturazione molto lento e faticoso. Il primo disco fu una combinazione di molte idee che avevamo, ma che non riuscimmo mai a far suonare esattamente come volevamo. Col secondo disco avemmo più libertà e iniziammo a sperimentare. Col terzo [SHEER HEART ATTACK, 1974] direi che più o meno eravamo arrivati alla meta.

Molti ritengono A NIGHT AT THE OPERA il miglior disco dei Queen. Sei d’accordo?

Non del tutto. Sicuramente è il più sfaccettato, ed è sicuramente un ottimo disco. Ma io ne preferisco diversi altri.

Avere quattro compositori nei Queen è stato un punto di forza. Ma quando uno degli altri tre centrava una hit, tu eri geloso?

Assolutamente no. Ricordo quando Freddie fece We Are The Champions. Dissi: “Il ritornello è uno spettacolo”. Ero orgoglioso quando qualcuno scriveva una canzone importante. Un singolo al n.1 apparteneva a tutti e quattro.

May è sempre sembrato un punto di calma e razionalità nel turbine Queen, anche se può essere protettivo al punto da sembrare molto acido nel difendere il suo gruppo dai detrattori. Oggi, l’uomo che Roger Taylor ha descritto come “una persona strutturalmente corretta”, appare cordiale e ben disposto, anche se condivide con il suo compagno un’ostinata avversione a celebrare il mezzo secolo dei Queen.

Secondo Roger, fin dal primo momento in cui vi siete conosciuti, avete voluto diventare un gruppo di successo. Ricordi la stessa cosa?

Sì. Avevamo sogni, sogni immensi. Volevamo tutto, e sentivamo di avere quel che serviva per riuscirci. È buffo, perché se la cosa si fosse limitata a me e Roger non saremmo mai partiti assieme. Anche se per certi aspetti ci completiamo a vicenda, per quasi tutto il resto siamo agli antipodi. Abbiamo opinioni diverse su tutto. Ci serviva qualcuno che facesse da intermediario. E stranamente fu Freddie. Tutti credono che Freddie fosse molto frivolo, e invece era pragmatico, con i piedi per terra. Se si accorgeva che tra me e Roger stava per scattare un litigio, trovava un modo per risolverlo, un compromesso. Una delle frasi storiche di Freddie era: ‘Noi non scendiamo a compromessi’. Ma al nostro interno sì che lo facevamo, eccome. Ecco perché siamo sopravvissuti.

Com’erano i primi tempi dei Queen? Divertenti o massacranti?

Sicuramente divertenti. Portavamo noi l’attrezzatura ai concerti, e la sistemavamo col nostro roadie, il caro vecchio John Harris. Cucinavamo noi il popcorn da servire prima del concerto. Faceva parte della preparazione. E poi invitavamo i manager e i dirigenti delle case discografiche ai concerti. E ovviamente loro non venivano mai.

È corretto dire che nei Queen l’autostima non mancava?

Direi proprio di sì. Avevamo una fiducia in noi stessi quasi folle, e una fede incrollabile nelle nostre capacità tecniche personali.

I critici più snob all’epoca trattavano tutti i gruppi hard rock come se fossero delle merde. Però i Queen sembravano prenderla molto più sul personale di altri. Perché?

C’erano un sacco di giornalisti musicali per i quali eravamo solo spazzatura. E la cosa ci feriva. Ciò che ci fece resistere fu il legame tra noi. Eravamo capaci di essere molto più perfidi e cattivi l’uno verso l’altro di quanto potesse fare la stampa. E così reggemmo i colpi sostenendoci a vicenda, diventando una famiglia unita.

Molte delle critiche erano rivolte direttamente a Freddie. La gente scriveva cose che oggi non sarebbero permesse. Credi ci fosse un elemento di omofobia?

È interessante. Confesso di non averci mai pensato. Le persone non sapevano che Freddie fosse gay. Noi non lo sapevamo. E all’inizio non credo nemmeno che Freddie lo sapesse. Ma lo era, e col senno di poi era ovvio. Era una persona sgargiante, garrula, sopra le righe. Ovviamente, quello non era il vero Freddie. Era la maschera che indossava. Ma credo che alla gente desse fastidio. La prendevano per arroganza.

Di chi eri più amico nel gruppo?

Direi di Freddie.

Freddie dava di sé un’immagine di persona molto distaccata, impossibile da avvicinare.

Questa era l’immagine, ma come persona in realtà aveva un gran cuore. Dava l’idea di essere sempre superficiale su tutto, ma poi ti sorprendeva. Se ci discutevi, qualche giorno dopo veniva e diceva: “Stavo pensando...”, ed era sempre qualche cosa che aveva pensato sulla discussione e sulle conseguenze del diverbio. Era un conciliatore.

Quando riguardi indietro agli ultimi 50 anni e alla vita che hai avuto, ci sono momenti in cui resti sorpreso?

Di continuo. Sai, entrando in una stanza ho sempre idea che nessuno sappia chi sono e sento la necessità di dimostrare quanto valgo. Sono pensieri che non vanno mai via del tutto. Mi sveglio la mattina e penso: “Mio Dio, ma è successo tutto davvero?”

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