Jimi Hendrix e la bestia erotizzata: racconto di chitarre, fuoco e benzina

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Per Hendrix, mulinare la chitarra in ogni direzione, aggredendola a dentate o a gomitate, sbattendola qui e là sul palco, o strusciandone il manico sull’asta del microfono per mugghiare cacofoniche fasce sonore filanti e glissate, era pura semiotica: il significante era “sperimentazione”, ma il significato era “sesso”, e la connotazione “rituale”.

Testo di Gianfranco Salvatore

La sua esibizione al Festival Pop di Monterey del 18 giugno 1967 viene sempre ricordata per la chitarra incendiata sul palco (gesto epocale benché già inaugurato in qualche teatro inglese di provincia), ma si tende a sottovalutare quel vero e proprio pezzo di teatro e laboratorio musicale che precede, nell’esibizione a Monterey, il gesto sacrificale.

Un anno prima, aveva avuto un enorme successo un 45 giri, Wild Thing, dei britannici Troggs. La “cosa selvaggia” della canzone originale, una ragazza, veniva invitata nel testo, ancora legato agli stereotipi della lirica d’amore adolescenziale, ad avvicinarsi per un abbraccio: blando eufemismo per l’espressione di un desiderio più intimo. Nella versione che ne dà Hendrix sul palco di Monterey, il suono materico che squassa l’introduzione di un minuto e diciassette secondi è in realtà uno studio sull’interazione tra la leva del vibrato e il feedback: all’emissione, indicando i propri orecchi con le dita, Hendrix invita il pubblico a proteggersi da quel che sta per scatenare.

Afferra la chitarra dal lato posteriore e la espone di faccia, come una croce capovolta, e manipolando la leva (che prima di lui si limitava a produrre un educato vibrato) scatena l’inferno. La chitarra ritorna nella sua posizione naturale, sospesa davanti al bacino, solo per essere sbatacchiata dai sobbalzi pelvici. A ogni gesto corrisponde una curva nell’altezza o nella dinamica del suono, a ondate. Poi il discorso si articola nel “canto” della leva, dal lessico quasi onomatopeico: miagolii e ululati sul registro acuto, lamenti e proteste gutturali sul grave, gli scatti dell’eloquio in un monologo molto concitato, scandito dal suo scenico ondeggiare assieme allo strumento.

Ma nei tre minuti conclusivi si scaglia contro gli alti e massicci amplificatori, li abbraccia violentemente, vi spinge la chitarra con scatti in avanti del bacino. Poi si getta in ginocchio, lo strumento disteso fra le gambe, la leva tirata e scossa violentemente con le mani e i lombi; e dal nulla appaiono benzina e fuoco per la scena archetipica. Impugnata come un’accetta, la chitarra viene infine abbattuta al suolo fino a separare il manico dal corpo. Ne lancia i resti fra il pubblico, e il suono materico si protrae anche quando il gruppo repentinamente lascia il palco. Musica elettronica prodotta senza strumenti elettronici: solo campi magnetici, prossemica, corpo, violenza e fiamme.

Alcuni mesi dopo, nei primi estesi articoli su di lui che cominciavano a comparire sulla stampa americana, la sua performance cominciava a essere accuratamente descritta nel modo di avventarsi su strumenti e amplificatori. Uno dei suoi primi intervistatori americani, Michael Thomas, lo dipingeva, a marzo 1968, così: 

Hendrix costruisce circoli viziosi di feedback e distorsione. Salta sul pedale del distorsore, sui sei altoparlanti, sui due amplificatori che minacciano di esplodere. Gli basta picchiettare il corpo della chitarra con l’anello, e suona come se precipitasse il Big Ben. Quando soffia sulle corde, si sente un piccolo uragano in avvicinamento. Spinge una leva, e giureresti di sentir suonare delle cornamuse. Gira una manopola, e starnazza come un’oca.

L’“uragano in avvicinamento” assieme allo starnazzare orgasmico: Thomas coglieva intuitivamente la potenza tellurica e il risvolto grottesco del Signifying afroamericano, riveduto e attualizzato. L’aggressione agli amplificatori con lo strumento impugnato come un’arma, e infine gettato contro il muro, appariva come ostentazione spermatica e virile, ma anche come elemento di modernità distruzionista.

Questa era la percezione, e a nessuno sfuggiva la particolare combinazione di violenza teatrale e fonica insieme. Thomas non sottovalutava i particolari di pura showmanship e sensualità, descrivendo con attenzione anche lo strusciare il manico sull’asta del microfono, la chitarra dietro la schiena o sulla testa o fra le gambe, suonata talvolta in posizione accovacciata, o con i denti; e l’aggressione agli amplificatori con lo strumento impugnato come un’arma, e infine gettato contro il muro, “nel supremo momento eiaculatorio della spettacolarità rock”.

Ma pochi mesi dopo l’artista confessava di non aver più molta voglia di saltellare sul palco. Rinunciò a incarnare il massimo archetipo rock di un eros violento e predatorio, anche a costo di deludere fans e intervistatori che continuarono a interrogarlo su questa rinuncia durante tutti i successivi tre anni di carriera, e fino ai suoi ultimi mesi di vita.

 

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