Deep Purple: TURNING TO CRIME raccontato da Roger Glover

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Togliere a un musicista il palco e la sala di registrazione è un po' come levargli l'aria. E certamente questo il caso dei Deep Purple. Cosa inventarsi, allora, se non un album registrato da remoto?

Intervista di Mario Giammetti tratta da Classic Rock 108, disponibile in tutte le edicole e sul nostro store online.

Chiacchierare con i Deep Purple è sempre un piacere. Stavolta abbiamo scelto Roger Glover, bassista di gran parte della carriera
della band nonché produttore di capolavori dell’hard & heavy anni 70.

TURNING TO CRIME è un disco di cover. Perché questa scelta?

E perché no? Quando facciamo un album, scriviamo musica tutti insieme: ci riuniamo e ci prendiamo 8-10 giorni per improvvisare e creare le basi per le canzoni che poi andremo a registrare. Con il Covid, non è stato più possibile. E siccome non siamo capaci di scrivere per i Deep Purple separatamente, la cosa migliore da fare era prendere le canzoni di qualcun altro.

Come le avete scelte?
Ciascuno di noi ha pensato a brani che gli sarebbe piaciuto suonare e sono venute fuori circa 40 o 50 idee, che abbiamo discusso durante divertenti conference call. Anzi, le abbiamo messe ai voti e sono state ridotte prima a una ventina e poi a circa 13, 14 o 15. Tenendo presente la fascia d’età da cui proveniamo, si tratta per lo più di canzoni degli anni 70, 60, persino 50. Non c’è niente della musica odierna che ci interesserebbe davvero coverizzare.

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Qual è stato il ruolo del produttore, Bob Ezrin, dal momento che questa volta avete registrato da remoto?

Bob è stato parte integrante di tutto questo: se Deep Purple è una ruota, lui è il mozzo. Steve Morse, Don Airey e io ci siamo divisi le canzoni e abbiamo preparato dei demo ciascuno a casa sua, con una drum machine e un arrangiamento che è stato poi inviato a Bob. Bob a sua volta ha coordinato gli invii dei file a ognuno di noi perché ci registrasse su il proprio contributo da casa: Steve lo ha fatto in Florida, io in Svizzera, mentre Don, Paice e Gillan l’hanno fatto in Inghilterra, sempre tutti separatamente. A un certo punto Bob ha detto, “Perché non usiamo dei fiati su Rocking Pneumonia and the Boogie Woogie Flu?”, e se ne è occupato lui a Nashville, Toronto o dovunque lo abbia fatto. Conosce molta gente, per cui ha scelto dei bravi musicisti e… bang.

C’è però anche un’altra voce, almeno nella prima parte di The Battle of New Orleans.

Sono io! Quella è una delle canzoni con cui sono cresciuto da bambino. Ancor prima del rock and roll c’era lo skiffle e io l’amavo, perché era musica energica e diversa: non parlava d’amore, ma aveva a che fare con la prigione, il crimine, la schiavitù, il lavoro. Insomma, con le cose reali.

Foto via: www.muzika.hr

È stato difficile adattarti a registrare in solitudine?

Più che difficile, impegnativo. Fondamentalmente, quando sono in studio c’è un amplificatore in sala e, non so in che modo, ma Bob fa sembrare le cose grandiose. Stavolta mi sono ritrovato a casa a dover collegare il mio basso a Pro Tools, cercando di ottenere un suono decente. Una volta fatto questo, la sfida successiva era fare le cose in maniera originale: non volevamo copiare le canzoni così com’erano, ma aggiungere qualcosa di diverso e infatti Steve Morse ci ha inserito roba nuova e molto difficile da suonare. È stata una bella esperienza di apprendimento e, ti dirò, mi è piaciuto stare da solo e provare le cose: se non funzionavano, nessun altro poteva sentirle.

Nei vostri album originali tu e Ian scrivete i testi insieme?
Sì. Ma lo facciamo sia separatamente che insieme. Alcuni giorni vedo che procede alla grande e non lo interrompo, perché scrive testi fantastici. Ma a volte mi dice, “qui avrei bisogno di un’altra strofa…”, e allora ci lavoriamo insieme, mentre altre volte anche io scrivo canzoni complete. Quindi è una situazione variabile, ma lui scrive probabilmente più di me. Del resto è un cantante, deve credere in quello che canta.

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