Intervista: LUIS BACALOV e i New Trolls

LUIS BACALOV non apparteneva al mondo del Rock. Eppure il Rock ha regalato pagine memorabili, a partire dal Concerto Grosso. Ecco la nostra intervista direttamente dallo speciale sui NEW TROLLS, in edicola da questo venerdì!

Intervista di Francesco Mirenzi

Di estrazione classica, LUIS BACALOV ha lavorato molti anni come arrangiatore e direttore d’orchestra per la RCA. In seguito si è dedicato alla composizione delle colonne sonore, realizzandone più di cento, tra le quali: La città delle donne di Federico Fellini, A ciascuno il suo di Elio Petri, Una storia d’amore e Quien sabe di Damiano Damiani, Una questione d’onore di Luigi Zampa. Come consulente musicale, ha curato la colonna sonora de Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, che gli procurò una nomination per l’Oscar che, invece, ha conquistato con Il postino diretto da Michael Radford e Massimo Troisi. Proprio dalla colonna sonora di un film nasce la musica di CONCERTO GROSSO dei New Trolls (Cetra, 1971), una delle più riuscite fusioni fra musica classica e rock. Dopo quell’exploit, replicò l’esperimento con gli Osanna (MILANO CALIBRO 9 Fonit Cetra, 1972) e il Rovescio della Medaglia (CONTAMINAZIONE, RCA, 1973).

Può raccontarci il percorso che l’ha portata in Italia a collaborare con un gruppo rock?

Io sono nato in Argentina e faccio parte di una generazione dove frequentare vari generi di musica era la norma, non l’eccezione. Le ragioni erano tante. Prima di tutto per motivi economici. Se uno voleva affrancarsi dalla famiglia, il modo più veloce per guadagnare dei soldi era lavorare nella musica leggera. La necessità ha portato molti musicisti illustri dell’area colta a frequentare le musiche più semplici e popolari. Già da ragazzo mostravo un certo eclettismo. Avevo una grande curiosità che in America Latina – almeno per la mia generazione – era fortemente sviluppata fra gli artisti. Allora, studiare il pianoforte per fare una carriera da virtuoso e, allo stesso tempo, frequentare gli ambienti di jazz e lavorare nella musica leggera per guadagnarsi la vita, non era una cosa rara. Era soprattutto un atteggiamento di apertura, perché se lavorare nella musica leggera significava sopravvivere, a frequentare il jazz non si guadagnava niente. Se inizialmente l’elemento economico era il richiamo principale, dopo qualche anno, ho capito che era un’esperienza di vita molto importante lavorare per la musica popolare. Un arricchimento della personalità. Ho incorporato senza grossi traumi, a poco a poco, gli elementi delle musiche più svariate. Ho fatto un lungo percorso prima di riappacificarmi con questi vari mondi della musica, e adesso sono contento di aver trovato un modo mio di vivere e di comporre. Con buona pace per quell’idea aristocratica per cui esiste una certa musica alta e le altre, più o meno, basse. Ritengo che molte musiche scritte da fior di accademici siano molto basse, nel senso che sono musiche aride, che non hanno un’anima, non hanno interesse, salvo quello di sfoggiare un’erudizione. Mi va benissimo l’erudizione, ma non come forma di arte. Ho sempre avuto il sospetto che non fosse importante dal punto di vista artistico. Ora ne sono convinto. Ho vissuto i primi vent’anni della mia vita a Buenos Aires. In seguito, per varie circostanze mi sono trasferito in Colombia, dove sono rimasto per quasi quattro anni. Fu allora che ho deciso di trasferirmi in Europa. Nel 1956 era meno traumatico, meno difficile di oggi trovare lavoro come musicista in Europa. Sono stato a Parigi e in Spagna per un paio d’anni e subito ho trovato il modo di guadagnarmi la vita, scrivendo e realizzando degli arrangiamenti. Mi sono trasferito in Italia anzitutto per una questione di piacere. Inoltre, anche se avevo sempre lavorato, venivo da un’esperienza francese non esattamente facile per gli stranieri, in quanto era scoppiata la guerra di Algeria.

Come la accolse l’Italia?

In Italia si era in pieno boom economico e gli stranieri venivano accettati senza problemi, anche perché erano pochi. Allora non c’era paura, non c’era stata l’immigrazione massiccia delle popolazioni del Terzo Mondo. Era un Paese amabile, anche se dopo lo è stato sempre meno, perché l’Italia, per certi versi, è cambiata in peggio. Comunque, era un Paese dove si viveva bene. Il contatto con la gente era facile. Inoltre, in Argentina l’influenza italiana era molto forte. Per cui, quando sono arrivato mi sono sentito a casa mia dal secondo giorno. Non ho avuto nessuna difficoltà di ambientamento. Poco tempo dopo, cominciai a comporre i primi arrangiamenti per la RCA nel momento del superboom discografico. Un’esplosione che dipendeva direttamente dalla grande diffusione degli elettrodomestici che in quel momento investiva l’Italia. Le case si riempivano di frigoriferi, di ventilatori e anche di mangiadischi e giradischi. Sin dagli inizi degli anni Sessanta, nella RCA ero molto attivo. Mi capitò di collaborare con molti cantanti, tra cui Gino Paoli, Luigi Tenco, Modugno, la Pavone e Sergio Endrigo, con il quale sono diventato molto amico – dagli inizi degli anni 60 fino alla metà degli anni 70 abbiamo lavorato sempre insieme. Fino all’ultimo disco che, purtroppo, segnò per lui un certo declino e – cosa che mi dispiacque molto – non riuscì più ad avere l’accettazione del pubblico. Ho scritto molte canzoni con lui. Inoltre si era formato un gruppo, nel quale collaboravamo entrambi, che si occupava delle canzoni per bambini. C’erano Vinicio De Moraes, Chico Buarque de Hollanda, Toquinho, Sergio Bardotti. Tutta una serie di persone che stando nel campo della musica leggera, in qualche modo, volevano produrre delle canzoni per bambini che, tengo a precisare, sono tutte molto intelligenti. A dispetto della maggior parte delle canzoni composte per loro, che sembrano scritte per bambini scemi. Fu un’esperienza molto divertente.

In seguito, ho lasciato la RCA e ho lavorato poco come arrangiatore, perché è un lavoro piuttosto duro. Bisogna sempre inseguire le mode, essere al corrente di tutte le novità. Gli arrangiamenti vengono visti come un qualcosa  di essenziale per la riuscita commerciale di un brano. Un lavoro in cui ci sono sempre tensioni, nonostante lo svolgessi con grande passione. Inoltre, la musica stava cambiando. In quello che viene definito rock progressivo c’era, soprattutto, una maggiore presenza di parti strumentali. Non erano solo canzoni ma qualcosa di diverso…

…continua sullo speciale Prog dedicato ai NEW TROLLS, da venerdì in edicola e online!
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