Vi diamo un assaggio delle tante recensioni che potete trovare in «Classic Rock» n.102: da Myles Kennedy ai Fleetwood Mac passando da Iosonouncane, eccone 10 per voi.
Myles Kennedy, THE IDES OF MARCH
Frontman degli Alter Bridge noto anche per le sue collaborazioni con Slash, Myles Kennedy è in attività da diversi anni, ma solo nel 2018 ha debuttato come solista. Oggi replica con THE IDES OF MARCH, dove evidenzia un approccio meno roboante, ma pur sempre canalizzato nel rock moderno. Lo stile è classico, con brani più energici come Get Along e i retaggi (hard) blues di In Stride, con tanto di chitarra slide, Sifting Through The Fire e la ballad malinconica Worried Mind, che spiega perché rischiò di sostituire Robert Plant nell’ipotesi di una reunion dei Led Zeppelin. Epica e incalzante, la title-track è la vetta di un album che, non ditelo in giro, noi preferiamo agli ultimi lavori degli Alter Bridge.
Gianni Della Cioppa
Paul Weller, FAT POP (VOLUME 1)
A soli undici mesi dall’ottimo ON SUNSET, la bulimia compositiva di Paul Weller ci regala dodici nuovi brani ancora una volta ispirati, freschi e di alto livello qualitativo. Registrato a distanza con i consueti sodali e l’immancabile corredo di ospiti (tra cui la figlia Leah alla voce), FAT POP non cambia una formula consolidata e vincente e le influenze attingono dalle sue passioni musicali: soul, Sixties, rhythm and blues, funk, folk, elettronica, sapientemente diluite in un mix che costituisce ormai quello che possiamo considerare un sound tutto suo, distintivo, subito riconoscibile, originale. Il sound, in compenso, è più crudo e duro del solito, con più spazio alle chitarre e all’immediatezza.
Antonio Bacciocchi
Rob Zombie, THE LUNAR INJECTION KOOL AID ECLIPSE CONSPIRACY
Accanto al cinema, Rob Zombie non ha perso la voglia di fare musica.
Si deve infatti anche a lui, prima con i White Zombie e poi da solista, l’avvio dell’industrial metal, poi mescolato con stoner, sludge e psichedelia. Questo settimo album esce a cinque anni dal precedente e ne prosegue il discorso, configurandosi come un soundtrack ideale per un film di Tarantino. I riff apocalittici di The Triumph Of King Freak si mescolano ai frammenti di country malato di 18Th Century Cannibals. Ma ci sono anche The Satanic Rites Of Blacula e Shake Your Ass- Smoke Your Grass, ovvero il rock radiofonico suonato alla maniera di Rob Zombie: ironia, alieni, donne nude e mazza dritta.
Gianni Della Cioppa
Mick Fleetwood & Friends, CELEBRATE THE MUSIC OF PETER GREEN
Riversato su due Cd (o quattro Lp) il concerto che Mick Fleetwood organizzò il 25 febbraio 2020 in onore di Peter Green (scomparso pochi mesi dopo) e della sua creatura più celebre, i Fleetwood Mac della prima fase, quella blues. Le ventitré canzoni sono interpretate da una frotta di ospiti straordinaria (vi bastano Billy Gibbons, Pete Townshend e David Gilmour?) ed ex Mac (oltre a Fleetwood, si esibiscono anche Jeremy Spencer e Christine McVie), che fa onore al rock blues di un chitarrista forse mai celebrato quanto meritava. Il film dell’evento sarà nei cinema in autunno; per chi non vuole aspettare c’è una versione cofanetto che comprende Cd, vinili e Blue-ray del concerto.
Giuseppe de Felice
Royal Blood, TYPHOONS
Salutati sette anni fa come salvatori del rock britannico, i Royal Blood furono definiti una via di mezzo tra i QOTSA di Josh Homme e i Muse, ma il paragone oggi più corretto è forse quello con i Black Keys di Lonely Boy. Dopo il “difficile” secondo album, qui Mike Kerr e Ben Thatcher potenziano infatti l’elemento “dance” della loro musica dando vita a pezzi quasi tutti destinati a diventare delle hit, con citazione speciale per Either You Got It, Trouble’s Coming e Million In One. Non mancano riff taglienti alla QOTSA e il tutto può ancora essere definito “rock’n’roll”, nonostante una produzione ultra-slick che potrebbe infastidire qualcuno, pur piacendo a molti. Perché questo è un disco che farà il botto.
Francesco Donadio
Dinosaur Jr., SWEEP IT INTO SPACE
Dopo cinque anni di silenzio, i Dinosaur
Jr. sono tornati con un dodicesimo album (coprodotto da Kurt Vile) fedele alla linea di sempre. Anche se l’irruenza della gioventù ha lasciato il posto a una maturità nella quale Neil Young (con e senza i Crazy Horse) incombe più degli Hüsker Dü, l’ispirazione è vivida e ben liberata in dodici brani più o meno trascinanti, più o meno saturi e rumorosi, più o meno inclini a evocative morbidezze e all’indolenza canora; sono naturalmente prevedibili, ma il fervore che li pervade allontana il sospetto del solito esercizio di stile finalizzato a portare a casa la pagnotta. In assoluto è un 7 pieno, ma i fan lo prendano come un 8.
Federico Guglielmi
Iosonouncane, IRA
Jacopo Incani si mette a nudo e concede alle stampe un triplo vinile di rara bellezza, che segna un’evoluzione rispetto a DIE e pone notevoli spunti di riflessione sulla scena indie italiana. Negli ultimi sei anni, l’artista sardo ha pubblicato uno split con i Verdena, collaborato al disco perpetuo di Maroccolo e anticipato l’uscita del nuovo album con Novembre e la cover di Vedrai, vedrai di Tenco, ma soprattutto ha lavorato per rendere concreta la sua ambiziosa visione. Immaginare oggi un’opera di diciassette tracce, per quasi due ore di musica, è anacronistico e coraggioso, eppure la musica scorre solenne e fluida e gli arrangiamenti sono uno più intrigante dell’altro.
Lorenzo Becciani
Marianne Faithfull, SHE WALKS IN BEAUTY
Era scontato che, prima o poi, Marianne Faithfull avrebbe reso omaggio alla poesia romantica inglese (Shelley, Byron, Keats), suo mai sopito amore di gioventù. Ha atteso tanto, ma adesso, a settantaquattro anni e dopo aver scampato la morte per Covid, ha recitato/declamato questi undici poemi con l’accompagnamento delle musiche appositamente create da Warren Ellis (coautore del disco) e con pennellate strumentali di amici come Nick Cave, Brian Eno e Vincent Ségal. Nessuna canzone, ma la voce della Signora garantisce ugualmente forti emozioni, specie affiancando l’ascolto alla lettura dei testi riportati nel libro a corredo. Pochi possono permettersi un album così.
Federico Guglielmi
Reach, THE PROMISE OF A LIFE
Tre è il numero perfetto. Sono un trio svedese attivo da 10 anni. Il loro terzo disco ha un titolo che ben si adatta al momento: “la promessa di una vita” e devo ammettere che l’album, a discapito dei testi cupi, ha una potente carica positiva grazie ai ritornelli ariosi e ostinatamente pop. L’influenza dei
Muse è evidente e a tratti invadente, perché il trio ha nella sua faretra un numero consistente di frecce. Soprattutto la voce di Ludvig Turner ha tutte le caratteristiche per poter fare la differenza una volta che il gruppo vorrà sfruttarla. Ciò detto, con questo disco, i Reach si candidano a raccogliere i frutti del loro duro lavoro, grazie a canzoni come New Frontier, la ballad epica che intitola il disco, e la diretta Satellite.
Jacopo Meille
St. Vincent, DADDY'S HOME
Annie Erin Clark aka St. Vincent è per indole poco prevedibile, e DADDY’S HOME lo ribadisce. Ispirandosi alla scarcerazione del padre dopo quasi undici anni e alla New York dei primi 70, ha dato vita a undici brani che prendono le distanze dalle pirotecnie di MASSEDUCTION (2017) per battere altre strade, sempre in bilico fra elettricità ed elettronica ma più quiete e intimiste, con marcati accenti soul/r&b e una più decisa propensione alla ballad. Non è uno stacco netto, perché i confini tra i due lavori tendono qua e là a sovrapporsi, ma la differenza di approccio si sente. Immutate l’alta qualità della scrittura e la brillantezza del sound, all’insegna di una moderna classicità.
Federico Guglielmi