La fine degli anni Sessanta incornicia l'album più ambizioso dei Kinks, originariamente pensato per uno show televisivo poi boicottato e soffocato dal successo catalizzante di un'altra opera rock, TOMMY degli Who. Si tratta di un classico prog perduto?
Il 1968 non porta buone novelle per i Kinks, reduci dal fallimento commerciale del loro THE KINKS ARE THE VILLAGE GREEN PRESERVATION SOCIETY. Tuttavia, l'anno successivo si preannuncia promettente, con l'annullamento del bando che impediva alla band di esibirsi in terra statunitense. A maggio si inizia quindi a lavorare sul nuovo album con, ancora una volta, un titolo funambolico: ARTHUR (OR THE DECLINE AND FALL OF THE BRITISH EMPIRE).
Sin da subito si preannuncia come un'opera ambiziosa e complessa, che propone un ritratto della decadenza dell'Impero britannico dal punto di vista di un uomo comune, tale Arthur, ispirato al cognato dei fratelli Davies, sposato alla sorella maggiore Rose. Quest'ultimo, a causa della crisi economica britannica, era partito con la moglie e la famiglia per l'Australia.
Un ritratto biografico e contemporaneo, che si riflette nelle dodici tracce dell'album con una progressione storica attraverso la prima e la seconda guerra mondiale. E tra i brani spicca Victoria, pubblicato il 15 ottobre 1969 e subito collocatosi al 33esimo posto in UK e al 62esimo in USA. Proprio quest'ultimo era il pezzo originariamente pensato per la colonna sonora di uno show su Granada TV per cui Julian Mitchell aveva già preparato soggetto e sceneggiatura.
Con un regista già selezionato e un cast pronto, il progetto sfumò nel nulla proprio a un passo dall'inizio. Si dice che la causa fu un calcolo errato dei fondi disponibili, ma la verità si annida in sotterfugi politici che non volevano uno show antinazionalista sullo schermo. Così il disco si privò di tale visibilità mediatica, trasformandosi in un concept album.
Lo stesso anno, poi, esce TOMMY, eclettica opera rock degli Who, già sul picco dell'onda del successo e accompagnata da un cult cinematografico con protagonista Roger Daltrey. Una bella batosta per quello che doveva prospettarsi come un promettente musical rock dei Kinks. E il messaggio di ARTHUR, di una Gran Bretagna in crisi esistenziale postbellica che latita nel prendersi cura del suo popolo riecheggia nella contemporaneità.
Sebbene il progetto non viva nei memoriali più floridi della discografia rock, l'epica scrittura che si riversa sull'attuale portata governativa della Brexit rivive oggi più che mai. E il senso ultimo dell'opera riaffiora nelle parole del giornalista e critico musicale Riccardo Bertoncelli.
“Arthur (or the Decline and Fall of the British Empire” è uno dei grandi dischi incompresi del rock. Una moderna favola di quelle che sono sempre piaciute ai Kinks, umile e sentimentale. Arthur, il protagonista, vive in una qualunque periferia londinese, in una casa con giardinetto fra le tante, con moglie, figlio e un’automobile frutto dei suoi risparmi, come tutti. La sua vita è imperniata sulla tradizione e scandita dalle abitudini fino a che un giorno il figlio non dice basta a quel mondo chiuso e decide di emigrare in Australia. Per Arthur è uno shock. Per cosa ha vissuto, perché non è riuscito a trasmettere i suoi valori? E valeva davvero la pena di vivere così? L’album racconta l’ultima domenica del padre con il figlio, il pranzo a casa, la visita al pub, il commiato: e tutti i dubbi che si affollano nella mente del vecchio, a quel punto un sopravvissuto in un mondo che non è più il suo.