Lennon e McCartney, insieme, furono i primi ad applicare alla musica pop tecniche d’avanguardia come il cut-up, il collage, l’alea, l’iteratività, la manipolazione dei timbri, il ribaltamento sonoro della relazione tra figura e sfondo, l’uso di loop e così via. Sviluppando con REVOLVER l’idea di un Lp che non fosse una raccolta di canzoni ma un’opera d’arte, e puntando con l’album successivo, SGT. PEPPER’S LONELY HEART CLUB BAND, a godere del riconosci-mento di questo primato.
Ma Lennon non è McCartney, McCartney non è Lennon. Per esempio sia l’uno che l’altro, come poi tutti gli artisti psichedelici, erano attratti dal mito dell’infanzia, nella sua duplice declinazione: gli occhi estaticamente puntati su un mondo ancora sconosciuto, e l’innocenza perduta. Ma McCartney era sedotto dal senso del magico, anche in chiave surreale, come egli dimostra prima con Yellow Submarine, poi con il concepimento di SGT. PEPPER e di seguito con il fallimentare (specie il film) MAGICAL MYSTERY TOUR.
Lennon era invece uno strano tipo di visionario: attirato da tutto quello che era storto, precario, risibile e dolente al tempo stesso; ma anche nutrito da un’inveterata inclinazione a concettualizzare. Un meditabondo irrazionalista, oppure, se preferite, un razionale pieno di fantasia. Fantasia dilagante, improvvisazione al potere, ma anche immaginazione prestata alla volontà: volontà di esprimersi oltre i confini delle cose già scritte, già dette, già cantate. A volte perfino in modo velleitario, ma giungendo sovente a risultati che hanno indicato la strada a tutti gli autori più originali del pop e del rock.
La rivalità fra Lennon e McCartney fu inevitabile
Le differenze di visione tra Lennon e McCartney non potevano non sfociare in rivalità, destinate a rivelarsi negli aspetti più avanzati della loro prospettiva musicale: quelli orientati verso le avanguardie, la sperimentazione, la ricerca sonora. Ma qual era il rispettivo background? Quale il loro immaginario? Nei suoi quarant’anni di vita, John Lennon adoperò vari media per esprimersi: alcuni costantemente, altri in determinati periodi. Ad esempio produceva schizzi e raccontini fin da piccolo. “Sono interessato soltanto alla poesia e all’arte, a quel genere di cose, e lo sono sempre stato”, raccontò a trent’anni. “È stato questo il mio eterno problema, cercando in continuazione di essere Shakespeare, o qualcosa del genere”. Dodicenne, quando già scriveva e disegnava, aveva la sensazione di essere un genio (o forse un matto). Così raccontava, da adulto, di sé ragazzino: ma nello stesso tempo ammoniva, certo in chiave autobiografica, che “il genio è dolore, solo dolore”.
Il suo talento era collegato a una menomazione, a un disagio profondo. E lui ne era consapevole. Ecco una prima chiave di lettura. Se il mondo, la vita, quello che siamo e quello che è, ci portano solo sofferenza, meglio guardare le cose con altri occhi, in una visione distorsiva, sarcastica, spiazzante. Perciò, nei discorsi come nella scrittura, Lennon ostentava la sua naturale vocazione satirica. E uno straordinario talento nel deformare i linguaggi. I neologismi e i continui calembours della sua opera letteraria si rispecchiano nei suoi disegni, tutti idealmente ripresi dal vero, ma da modelli intenzionalmente alterati, tradotti in personaggi coerenti con il suo immaginario, e dunque sottilmente incoerenti con se stessi, o con la vita che si vive.
«Si beffava del suo stesso successo, sostenendo che nei suoi libri non diceva nulla, che non c'era nessun messaggio.»
Alcune buone letture, e una consanguineità con la verve surreale dei Goons (Spike Milligan, Harry Secombe, Peter Sellers), che dalla radio nutrivano l’humour inglese di un’intera generazione, rafforzarono quella che era una sua inclinazione naturale. Proprio un’inclinazione in senso stretto: un piano inclinato, dove far scorrere le proprie idee verso il basso, e a volte precipitare assieme a esse. Essendo uno dei Beatles, nel 1964, appena ventiquattrenne, Lennon ebbe il privilegio di vedersi pubblicare un libro da schizzi, versi e microstorie presumibilmente prodotti negli ultimi tre anni: In His Own Write (che l’anno dopo fu seguito da A Spaniard in the Works). Nel primo libro, e ancor più nel secondo, emerge anche nei disegni la sua inclinazione a rappresentare figure umane zoppe, obese, o dai colli spropositatamente allungati e deformi. E sono frequenti i personaggi di colore, gli ebrei, gli omosessuali: tutti messi in parodia, tramite vertiginosi giochi di parole. Il che ha fornito una facile occasione, alla critica più scandalistica, per dargli del perverso, o del razzista. Basterebbe un briciolo di psicologia per comprendere come Lennon riversasse su quei personaggi il suo personale disagio, trattandolo nel modo che gli era iù congeniale: il gioco linguistico. Il “diverso” era lui, e “diverso” era il modo in cui si esprimeva. D’altronde da ragazzo, e ancora per circa metà della carriera dei Beatles, Lennon non pensava affatto di dover dire grandi cose, o di impegnarsi su grandi temi. Già nel modo di presentare il suo primo libro rimarcava al tempo stesso, tramite un gioco di parole, l’individualità e la mancanza di pretese del suo approccio. Il titolo era infatti omofonico all’espressione idiomatica “in his own right”, che in inglese vuol dire più o meno “a modo suo”, ma è anche un modo di relativizzare un valore: “rispetto agli altri”.