John Lennon: un visionario del rock

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La tensione esistenziale di John Lennon diventa arte: fu un vero  visionario,,,

La visionarietà di John Lennon si esprime nei momenti di maggiore tensione (umana e artistica) della sua esistenza: il suo disagio di adolescente, negli anni  Cinquanta, la rivalità con McCartney nei Beatles, nei Sessanta, poi il rapporto “totale” con Yoko Ono. Ma con una costante: la tendenza a rappresentare una realtà distorta. Unica via d’uscita dal dolore di un genio autoconsapevole e insicuro.

La pubblicazione di In His Own Write è un episodio molto sottovalutato nella letteratura storicocritica sui Beatles, ma fu cruciale nello scoprire carte,  scoperchiare dinamiche latenti, innescare catarsi e conflitti. Sull’edizione americana del libro Lennon fu gratificato del titolo di “the writing Beatle”, il Beatle che  scrive. Molte interviste furono dedicate a questa sua insospettata attività, e l’autore lesse passi del proprio libro alla radio inglese (il programma The Public Ear) il 18 marzo. Parecchi critici si dissero stupiti di trovare un cantante pop in grado di scrivere sottinteso, di pensare. Eppure, per uno che era un Beatle, la qualità accoglienza/esordio editoriale fu superiore a ogni aspettativa. Specie tenendoconto del fatto che, pur divertente per l’approccio ludico alla scrittura, non si trattava affatto di una lettura facile. Anzi: ermetica, complessa, perfino ostica. Fin dall’uscita Lennon fu paragonato, da qualche critico illustre, addirittura a Joyce: e  ancora oggi i massimi studiosi di letteratura nonsensical e joyciana, come Wim Tigges o Neil Cornwell, lo avvicinano al dadaismo e al Finnegans Wake per  l’approccio visionario alle distorsioni lessicali e linguistiche.

«È STATO QUESTO IL MIO ETERNO PROBLEMA: CERCARE DI ESSERE SHAKESPEARE»

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John Lennon: il rock incontra l'arte

Quello col Dada era un paragone più pertinente, non solo per Lennon, ma per la nascita del rock e la  costruzione del suo statuto creativo, del suo atteggiamento espressivo. Sui manifesti e i proclami del Dadaismo, cent’anni fa, si leggevano dichiarazioni come “l’arte non è una cosa seria”, “siamo e siete tutti degli idioti”, “c’è un gran lavoro distruttivo, negativo da compiere” (su stili e forme tradizionali e codificate,  s’intende), ma anche: “MUSICISTI SPACCATE I VOSTRI STRUMENTI CIECHI sul palco scenico”.

Come poi il rock, il Dada esaltava un’espressione mirata più al dispendio psicofisico che alla creazione di forme complesse, evocando “fantasmi ebbri di energia”, e anticipava la pop art con dichiarazioni quali “anche la  pubblicità e gli affari sono elementi poetici”. Anche lo storico della cultura Robert Hewison ritiene che, specie dal punto di vista dell’“ assalto alla parola” e  all’“autorità del linguaggio”, le esperienze degli anni Sessanta “erano una continuazione di quanto iniziato dai dadaisti e surrealisti”. Il poeta scozzese Alex  Trocchi, che era cresciuto in America al fianco degli scrittori beat, ammirato anche da Jim Morrison e Leonard Cohen, molto vicino a William Burroughs, ammise  n pubblico a Edimburgo che il nichilismo di molti beat derivava dal Dada (e da Nietzsche). Gli happening di Jeff Nuttall, animatore del più importante  gruppo di sperimentazione teatrale della swinging London – che si esibiva anche nelle librerie frequentate da Lennon e McCartney, si muovevano tra il cabaret  dadaista e il teatro della crudeltà di Antonin Artaud. E il principale diffusore dei beat in Inghilterra, Michael Horovitz (maestro di Barry Miles), commentando  retrospettivamente il festival di poesia del 1965 alla Royal Albert Hall, che fece settemila presenze prefigurando il vivace pubblico dell’underground e le ambizioni dei grandi concerti rock, vi avrebbe individuato una sorta di “esperanto del subconscio” prodotto dall’incrocio fra le eredità del Dada, dei surrealisti e dei poeti  beat.

Un’analoga miscela, ecletticamente nutrita di avanguardie e controculture, aveva formato anche il giovane Lennon. Lui, come McCartney, amava i pittori  surrealisti, ma preferiva il Dada, anteponendo Duchamp a Dalí. Nel suo destino, questa sua prospettiva era destinata non solo ad allargarsi, ma a materializzarsi.  Una delle fondatrici del movimento Fluxus, che agiva fra Stati Uniti ed Europa in chiave apertamente neo-Dada, sarebbe diventata la sua musa giapponese. Così  si forma John Lennon, il visionario – ma anche il provocatore fragile e tagliente, l’incoerente, il geniale velleitario, l’inesausto contraddittorio di se stesso. Si  beffava del suo stesso successo sostenendo che nei suoi libri non diceva nulla, che non c’era alcun messaggio, e che un libro per lui consisteva nel mettere  assieme, una volta che si erano accumulati, gli appunti su pezzetti di carta che riponeva casualmente in tasca. Stava facendo una dichiarazione perfettamente in  linea con la retorica dell’ostentato cinismo o della studiata sottovalutazione che è organica a numerose tendenze delle arti contemporanee.

Quando parlava  seriamente, però, sottolineava con lucidità che quei suoi libri contenevano molte critiche alla religione, una satira globale del sistema, una visione del contrasto  fra lavoratori e capitalisti. E quando era particolarmente in vena di sincerità, considerava i due libri pubblicati in vita come gli unici testi a contenere storie ed emozioni personali, mentre all’epoca per le canzoni si esprimeva in modo professionale, impersonale: “Come per il mercato della carne”, senza alcuna profondità.  a tutto ciò solo fino al 1965.

Questo articolo appare integralmente nel numero speciale John Lennon e i Visionari del rock! Una monografia di 130 pagine.
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