I Genesis attraverso le recensioni storiche (pt.2)

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Abbiamo già ripercorso FROM GENESIS TO REVELATION, TRESPASS e NURSERY CRYME attraverso le recensioni a loro contemporanee in Italia. Ma di certo non finisce qui: ecco le opinioni dei critici italiani su 2 album che hanno fatto la storia del prog.

FOXTROT

Da «Ciao 2001», 22 ottobre 1972, testo di Enzo Caffarelli

Peter Gabriel e compagni si adagiano un tantino sugli allori, ispirandosi fin troppo marcatamente ai precedenti TRESPASS e NURSERY CRYME, ma con un’aria più introversa e sofisticata, senza le gloriose e trascinanti impennate di White Mountain, Musical Box o Fountain of Salmacis. La musica è sempre ricercata, minuziosa, ma a tratti troppo estetizzante, tutta improntata su cali e crescite di intensità e di volumi, una “musica in progresso”, ma alquanto preziosistica nella creazione di climi particolari, e non di rado formale e monotona.

La raffinatezza estetica non trova infatti costantemente una sostanza strumentale da rivestire, Banks è meno lucido del solito, e Gabriel vuole strafare. È bello ed affascina in ogni caso il discorso artistico globale del quintetto accompagnato da testi bellissimi, sempre una miscela di realtà, mito e fantasia, con un gusto del passato guidato da una sottile ironia vittoriana, romantica e crudele a un tempo, e una visione del futuro in chiave allarmistica vorrei dire hammilliana.

E accompagnato dalla illustrazione grafica che, in mancanza del pur interpellato Salvador Dalí, è stata affidata ancora una volta all’eccezionale Paul Whitehead: una copertina dai colori pallidi e dai tratti sfumati, ispirati alla caccia alla volpe, un gioco complesso di allegorie indecifrabili, dove comunque non è difficile scorgerne alcune particolari direttamente riferite alle parole delle canzoni, come i sette santi in processione, o la reminescenza del campo da croquet con la terribile Cynthia e la bambinaia che giocano con la testa d’uomo.

Watcher of the Skies è un tipico esempio di questo fumoso estetismo nonostante una bella introduzione “mellotronistica”, decisamente d’atmosfera. L’argomento trattato è l’ultimo sopravvissuto sulla terra, come già in Stagnation: “Non giudicate questa razza dai vuoti resti. Giudicate forse Dio dalle sue creature quando sono morte? Ora la lucertola ha lasciato cadere la sua coda; questa è la fine della lunga unione con la Terra”.

Time Table è un episodio delicato ispirato ai temi del medioevo: “Una tavola intagliata di quercia racconta la storia dei tempi in cui re e regine suggevano vino da coppe dorate, e gli eroi conducevano le loro dame dalle stanze ai freschi pergolati. Un’era di valore e di leggende, quando l’onore significava molto di più della vita per un uomo, e i giorni sapevano solo distinguere il giusto dall’errato con la lancia e la spada. Perché, perché non possiamo mai essere sicuri finché non moriamo, o non abbiamo ucciso per una risposta, perché permettiamo ad ogni razza di credere che nessuna altra razza è stata più grande? Forse perché nello spazio e nel tempo, sebbene i nomi cambino, ogni volto mantiene la maschera che indossava...”.

Get ‘em out by Friday alterna pause noiose a momenti vivacissimi fra gli strumentisti, come altrove è in bella evidenza il batterista Phil Collins (e si tratta di un ruolo importante nell’economia di gruppo, a giudicare anche dal fatto che ben altri tre uomini vi si sono susseguiti prima del mancino Phil). Il brano riprende la struttura del dialogo serrato di Harold the Barrel, sul tema della programmazione genetica in previsione della genesi dell’homo biologicus, una sorta di pianificazione dell’umanità. Questo è l’annuncio del Controllo Genetico: “È mio triste dovere annunciarvi la restrizione dell’altezza umanoide a quattro piedi”.

Can-Utility and the Coastliners contiene un testo fra i più complicati, mentre strumentalmente offre forse i momenti di maggiore lucidità nella prima facciata. La seconda è una suite unica, Supper’s Ready, certamente la parte migliore dell’album, con introduzione classicheggiante e passaggi strumentali eccellenti. È piena di significati allegorici e di immagini fuggevoli e repentine, dove ritroviamo accanto ai temi della Guerra Santa le città bibliche e il 666, numero della Apocalisse. Un angelo intona il coro: “Questa è la cena del potente... Signore dei Signori, Re dei Re, è tornato per guidare i suoi figli a casa, per portarli nella nuova Gerusalemme”.

genesis-1 foxtrot

SELLING ENGLAND BY THE POUND

Da «Ciao 2001», 28 ottobre 1973, testo di Enzo Caffarelli

Giunti rapidamente al sesto album, i Genesis confermano di essere maturi, degni rappresentanti della generazione inglese che ha fatto scuola in tutta Europa. Peter Gabriel, in particolare, è divenuto una figura simbolo per il colore e la coreografia della sua esibizione, sorretta da una precisa funzionalità descrittiva, da un intimo rapporto suono-parola-immagine che manca in altri showmen dei nostri giorni. FOXTROT mi era sembrato leggermente inferiore rispetto a NURSERY CRYME, più fresco e originale. Con SELLING ENGLAND BY THE POUND si torna agli antichi splendori. La stampa inglese — che in questi casi non è inutile citare — si è espressa in termini entusiastici, definendo l’album il migliore in senso assoluto nella produzione dei Genesis.

Ma prescindiamo da questi giudizi troppo categorici e soggettivi per esaminare più dettagliatamente il Long Playing. Sul piano strumentale la novità più rilevante è costituita dall’impiego del Moog (in realtà si trattava di un ARP Pro Soloist - ndr): il sintetizzatore, nelle mani fatate di Tony Banks, diventa l’ennesima tastiera capace di meravigliose atmosfere evocative, alla ricerca dei romantici francesi e russi. Il suo uso è funzionale, nel senso che viene a sostituire l’orchestra o più semplicemente a svolgere il ruolo dell’organo, ben lontano dal gratuito rumorismo. Per il resto Gabriel lavora all’oboe e al flauto (suo vecchio pallino: lo ricorderete ospite in un album di Cat Stevens). La ritmica si conferma solida e precisa, impeccabile, e viene fuori prepotentemente un personaggio raramente apprezzato, cioè Steve Hackett: uno fra i chitarristi più significativi della nuova scuola inglese, sulle orme del miglior Bob Fripp che rimane, a conti fatti, il prototipo di una generazione di chitarristi.

Soprattutto bisogna notare che i Genesis si sono prodigati nella ricerca, hanno lavorato pazientemente senza sfruttare aprioristicamente certe formule troppo collaudate, o quel che è peggio, adagiandosi sugli allori. Naturalmente la musica rimane la loro, inconfondibile, con i colori e le sfumature abituali. La copertina contiene tutti i testi nella traduzione italiana. La vecchia promessa di Stratton-Smith è stata così mantenuta. Ciò è decisamente importante, perché le liriche di quasi tutti gli inglesi sono piene di termini allegorici, di doppi sensi, di modi di dire strettamente gergali, che possono facilmente sfuggire anche a chi conosce bene la lingua. La traduzione consente di godere completamente la musica del complesso: un esempio che altri artisti — o i discografici per loro — dovrebbero seguire.

Gabriel ha voluto sottolineare il marciume della società odierna, ridotta a vetrine di supermercato “che appaiono come siepi di bacche avvelenate”, messa a confronto con l’Inghilterra storica e gloriosa. L’operazione è esemplificata dalla citazione di figure emblematiche attinte al folklore o alla mitologia, incollate l’una dopo l’altra o fuse in giochi di parole che danno un particolare tono al linguaggio: fornendogli da un lato l’efficacia della denuncia aperta, dall’altro il colore cesellato della ricostruzione storica, così cara ai gruppi inglesi. La tendenza fiabesco-impressionista della loro arte non è mai — ed in questa occasione meno che meno — disgiunta da elementi spiccatamente realistici e dalla critica sociale, come alcuni viceversa sostengono.

Giunti rapidamente al sesto album, i Genesis confermano di essere maturi, degni rappresentanti della generazione inglese che ha fatto scuola in tutta Europa. Peter Gabriel, in particolare, è divenuto una figura simbolo per il colore e la coreografia della sua esibizione, sorretta da una precisa funzionalità descrittiva, da un intimo rapporto suono-parola-immagine che manca in altri showmen dei nostri giorni. FOXTROT mi era sembrato leggermente inferiore rispetto a NURSERY CRYME, più fresco e originale. Con SELLING ENGLAND BY THE POUND si torna agli antichi splendori. La stampa inglese — che in questi casi non è inutile citare — si è espressa in termini entusiastici, definendo l’album il migliore in senso assoluto nella produzione dei Genesis.

Ma prescindiamo da questi giudizi troppo categorici e soggettivi per esaminare più dettagliatamente il Long Playing. Sul piano strumentale la novità più rilevante è costituita dall’impiego del Moog (in realtà si trattava di un ARP Pro Soloist - ndr): il sintetizzatore, nelle mani fatate di Tony Banks, diventa l’ennesima tastiera capace di meravigliose atmosfere evocative, alla ricerca dei romantici francesi e russi. Il suo uso è funzionale, nel senso che viene a sostituire l’orchestra o più semplicemente a svolgere il ruolo dell’organo, ben lontano dal gratuito rumorismo. Per il resto Gabriel lavora all’oboe e al flauto (suo vecchio pallino: lo ricorderete ospite in un album di Cat Stevens). La ritmica si conferma solida e precisa, impeccabile, e viene fuori prepotentemente un personaggio raramente apprezzato, cioè Steve Hackett: uno fra i chitarristi più significativi della nuova scuola inglese, sulle orme del miglior Bob Fripp che rimane, a conti fatti, il prototipo di una generazione di chitarristi.

Soprattutto bisogna notare che i Genesis si sono prodigati nella ricerca, hanno lavorato pazientemente senza sfruttare aprioristicamente certe formule troppo collaudate, o quel che è peggio, adagiandosi sugli allori. Naturalmente la musica rimane la loro, inconfondibile, con i colori e le sfumature abituali. La copertina contiene tutti i testi nella traduzione italiana. La vecchia promessa di Stratton-Smith è stata così mantenuta. Ciò è decisamente importante, perché le liriche di quasi tutti gli inglesi sono piene di termini allegorici, di doppi sensi, di modi di dire strettamente gergali, che possono facilmente sfuggire anche a chi conosce bene la lingua. La traduzione consente di godere completamente la musica del complesso: un esempio che altri artisti — o i discografici per loro — dovrebbero seguire.

Gabriel ha voluto sottolineare il marciume della società odierna, ridotta a vetrine di supermercato “che appaiono come siepi di bacche avvelenate”, messa a confronto con l’Inghilterra storica e gloriosa. L’operazione è esemplificata dalla citazione di figure emblematiche attinte al folklore o alla mitologia, incollate l’una dopo l’altra o fuse in giochi di parole che danno un particolare tono al linguaggio: fornendogli da un lato l’efficacia della denuncia aperta, dall’altro il colore cesellato della ricostruzione storica, così cara ai gruppi inglesi. La tendenza fiabesco-impressionista della loro arte non è mai — ed in questa occasione meno che meno — disgiunta da elementi spiccatamente realistici e dalla critica sociale, come alcuni viceversa sostengono.

Dancing with the Moonlit Knight è il brano conduttore dell’album: canzone dolcissima, ove gli strumenti entrano uno per volta per assommarsi poi nel gioco finale. Un pezzo tipico, vicino alla grandezza di Musical Box, che rimane a mio avviso il loro capolavoro; in più vi si ascolta il Moog, al quale Banks opera secondo i criteri sopra descritti. Il testo è quello che dà il titolo all’album, ed è facile rilevarvi i doppi sensi allegorici di cui si diceva: per esempio i Cavalieri Verdi che danzano con il cavaliere illuminato dalla luna sono anche i bollini punti dei prodotti casalinghi.

I Know What I Like (In Your Wardrobe) comincia come un pezzo psichedelico degli anni 60 (Beatles, Rolling Stones) realizzato mediante semplici accorgimenti tecnici in sala di registrazione. Si tratta di un momento di raccordo che possiede l’immediatezza e la comunicativa che fanno pensare ai Family, come già in altre occasioni. Nel testo, cui è ispirato il disegno di copertina, autrice Betty Swarwick, il protagonista si identifica con una falciatrice.

Firth of Fifth, introdotto dal pianoforte, si snoda come uno dei classici dei Genesis (potrebbe appartenere a FOXTROT), ed è il brano più lungo della prima facciata. Nella lunga porzione strumentale si distingue un intermezzo classicheggiante di flauto, quasi minuettistico. La chitarra di Hackett viene fuori a ricordare il recente Mike Oldfield di TUBULAR BELLS ma con un calore e un feeling degni di Santana (insomma; ndr); il suo assolo potrebbe rappresentare lo scorrere del fiume di cui si narra nel testo (Firth of Fifth è una parafrasi di Firth of Forth, fiume scozzese). Uno degli episodi complessivamente migliori del 33 giri, che si può prestare a una trascinante esecuzione live.

More Fool me, cantata dal Collins, è un episodio breve e raffinatissimo, ma il testo è stupido. Divertentissimo invece quello di The Battle of Epping Forest che introduce la seconda facciata, ispirato a una cronaca giornalistica intorno a due bande per accaparrarsi il controllo di un noto quartiere londinese: Gabriel la rievoca con fine umorismo, trasformando la lotta in competizione sportiva e la foresta in enorme stadio, con personaggi alienati che si muovono come burattini fra limousine, teppisti, e ragionieri che tengono il punteggio. Apertura con marcetta molto british, per dare l’idea epica della battaglia, poi diviene un collage di ritmi, sonorità e di voci: grazie alla struttura dialogata è la più visiva fra le canzoni dei Genesis.

After the Ordeal, strumentale gustoso, trae spunto dal folk britannico e dal classico, mentre The Cinema Show è un autentico gioiello, pur nella sua brevità (ma dura quasi 11 minuti: ndr). Come in parte il precedente, dona quell’idea di nordico favolismo da cui discende parte dalla musica popolare e classica dell’Ottocento. Come avviene spesso per i Gentle Giant, si pensa ai cartoni animati, e non per niente si parla di cinematografo.

Infine Aisle of Plenty, brano svincolato dai soliti modelli, ricco di trovate melodiche e armoniche, oltre a nuove sonorità. La conclusione soffusa riprende il tema iniziale di Dancing with the Moonlit Knight. “Che c’è per cena?” si chiedeva Peter in Supper’s Ready... ora risponde “ci sono uova strapazzate” fra le pubblicità di un qualsiasi supermercato.

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