Conosci queste 10 perle dell’età d’oro del rock?

neil young

Abbiamo deciso di tornare all’età d’oro del rock, che per tutti noi rimangono gli anni 70: un decennio nel corso del quale è successo praticamente tutto quello che oggi fa parte della sterminata tradizione della nostra musica.

Clicca qui per leggere la prima parte: "Conosci queste 10 perle rock degli anni '70?"

 

Simon & Garfunkel, BRIDGE OVER TROUBLED WATER
(COLUMBIA, 1970)

Quando cominciano le registrazioni per l’ultimo capitolo di una discografia di grande successo, Paul Simon e Art Garfunkel stanno attraversando un periodo di tensione che infine porterà allo scioglimento. Ma chiudono in bellezza con una raccolta di successi planetari che però è anche l’occasione per Simon di azzardare i suoi primi viaggi tra le musiche del mondo: il reggae abbozzato di Why Don’t You Write Me e la melodia andina adattata a El Condor Pasa. Poi c’è il rock & roll di Baby Driver e il ritmo indiavolato di Cecilia, ma soprattutto ci sono due grandi classici come la titletrack e The Boxer. La produzione di Roy Halee, gli arrangiamenti, i suoni, è tutto perfetto. Se no, come si spiegano 25 milioni di copie vendute e 5 Grammy Award?

Michele Neri

simong garfunkel
BRIDGE OVER TROUBLED WATER, Simon and Garfunkel

Soft Machine, THIRD

(CBS, 1970)

La macchina ha perso dei pezzi, Daevid Allen è partito per il pianeta Gong e Kevin Ayers ozia al sole di Ibiza o nei bar di Parigi. Rimasti in tre, i Soft abbandonano la vena frammentaria e dadaista dei primi album ed esplorano in questo doppio della piena maturità sconfinati territori di sperimentazione: quattro lunghi brani, uno per facciata, firmati dai singoli membri, con i riff del basso fuzz di Hopper e le volute penetranti e acide dell’organo di Ratledge, echi di Miles Davis e Terry Riley. La stralunata e magica Moon In June di Wyatt è anche il suo canto del cigno, non ci sarà più spazio per la sua voce nella band, mentre la presenza tra gli ospiti del sax di Elton Dean fa presagire le algide geometrie future.

Stefano Pogelli

soft machine
THIRD, Soft Machine

Spirit, TWELVE DREAMS OF DR. SARDONICUS

(EPIC, 1970)

Allo scadere della loro ora più felice, gli Spirit sfoderarono il proprio capolavoro, nonché uno dei grandi album dalla costa ovest. Anno 1970, dopo avere inseguito i Love sul terreno di un acid rock raffinato e obliquo, Randy California e compagni risolvono il rebus con un disco multiforme, un pop distorto, finemente arrangiato, capace di passare in scioltezza da SGT. PEPPER a BUFFALO SPRINGFIELD fino ad ELECTRIC LADYLAND. Un concept che non fruttò un grande successo, ribadendo però il talento di Randy e Jay Ferguson grazie a canzoni come Mr. Skin e Nature’s Way.  Invecchiato presto, si ripresenta oggi in buona forma grazie al suo sgargiante impasto sonoro e alla sua ineffabile mutevolezza stilistica.

Giovanni Capponcelli

spirit
TWELVE DREAMS OF DR. SARDONICUS, Spirit

The Stooges, FUN HOUSE

(ELEKTRA, 1970)

Parlando di Stooges si finisce spesso a citare THE STOOGES e RAW POWER per via di quella mezza dozzina di brani-dazibao, dimenticandosi che fu proprio questo secondo album – l’ultimo con l’organico originale – a immortalare la band di Iggy Pop nella sua più reale, deflagrante e minacciosa essenza. Con la guida di Don Gallucci, produttore concreto e non incline agli intellettualismi, i quattro di Detroit lasciarono fluire in libertà il loro magma rock in cui hard primordiale e blues deviato si intrecciavano con deviazioni funk e free jazz. Sia chiaro, le grandi canzoni in senso standard non mancano (T.V. Eye, Loose, 1970…), ma se esiste un disco che cattura il sound dell’apocalisse incombente… be’, quello è FUN HOUSE.

Federico Guglielmi

stooges
FUN HOUSE, The Stooges

Traffic, JOHN BARLEYCORN MUST DIE

(ISLAND, 1970)

È concepito come disco solo di Winwood, dopo la parentesi dei Blind Faith, ma poi con il contributo di Wood e Capaldi rinasce il glorioso marchio. La title-track è una ballata folk, una storia di truculente vendette ma che cela in realtà le fasi della distillazione del whisky. Aria folk anche nella copertina, color paglia e con antiche stampe, ma il resto del disco ci regala spericolate escursioni nel jazz e nel funky, con la trascinante Glad che fu da noi la sigla di “Per voi giovani”, con lo spigoloso assolo di sax wha-wha di Wood. E poi, un’orgia di piano Fender e di Leslie accompagna la più bella voce del blues inglese. Dopo un tale capolavoro, i Traffic e Winwood non toccheranno più tali vette.

Stefano Pogelli

traffic
JOHN BARLEYCORN MUST DIE, Traffic

Neil Young, AFTER THE GOLD RUSH

(REPRISE, 1970)

Dopo lo straordinario DÉJÀ VU a firma CSN&Y, il canadese inaugura il decennio con temi e suoni che gli saranno cari in futuro: c’è la ballata folk che scivola come un valzer rustico (Only Love Can Break Your Heart raccoglie i cocci del cuore spezzato di Graham Nash); c’è l’idiosincrasia per un Sud razzista e bigotto (l’abrasiva Southern Man, a cui farà seguito Alabama, scatenando l’ira dei rocker sudisti); c’è la compassione mista a rassegnazione per il disfacimento che lo circonda (Don’t Let Bring You Down, una supplica per Danny Whitten che sprofondava ogni giorno nell’abisso  dell’eroina?). Persino l’unica cover, Oh, Lonesome Me, diventa un manifesto del cowboy solitario che si barcamena tra eccessi da showbusiness e sfrontato isolamento rurale.

Barbara Tomasino

neil young
AFTER THE GOLD RUSH, Neil Young

Leonard Cohen, SONGS OF LOVE AND HATE

(COLUMBIA, 1971)

Le mie canzoni sono venute a me. Ho dovuto raschiarmele via dal cuore”, riflette Cohen sulla sua ispirazione. Dopo i “frammenti” o le “cascate” – le sue composizioni – che come lampi hanno folgorato le anime sensibili (Suzanne, Bird On A Wire), il songwriter racconta la solitudine dei santi stanchi del martirio delle proprie carni (un dialogo immaginario tra il poeta e Giovanna d’Arco) e mette in scena un triangolo amoroso che è la quintessenza della fragilità umana (“And what can I tell you my brother, my killer”, sussurra in Famous Blue Raincoat sostenuto da arpeggi e un delicato controcanto). Al di là degli arrangiamenti, il nodo sono le parole sillabate da una voce che è miele e rasoio in ogni singola nota sbocciata da un registro grave che è specchio dello smarrimento.

Barbara Tomasino

leonard cohen
SONGS OF LOVE AND HATE, Leonard Cohen

The Doors, L.A. WOMAN

(ELEKTRA, 1971)

Il ventisettenne Jim Morrison sta attraversando un momento pesante della sua vita. È stufo di essere una rockstar, vuole mollare tutto per dedicarsi all’arte ma non può: la Elektra esige l’ultimo disco del suo contratto. Continuando sullo stile semplice e diretto che li ha contraddistinti negli ultimi lavori, i Doors prendono con L.A. WOMAN una deriva blues con testi che gravitano attorno alla città di Los Angeles, incidendo brani profondi e lisergici come Riders On The Storm e L’America. Perdono anche il produttore che li seguiva dagli esordi, Paul Rothchild, schifato dal sound lounge di Love Her Madly. Jim non assisterà nemmeno al mixaggio del disco, per volare dalla sua amata Pamela a Parigi, dove morirà dopo neanche quattro mesi.

Luca Fassina

the doors
L.A. WOMAN, The Doors

Emerson, Lake & Palmer, TARKUS

(ISLAND, 1971)

Ormai i tre hanno conquistato un interplay pazzesco e qualsiasi ambizione è alla loro portata. Così, in appena sei giorni registrano il loro secondo album ed è tutto un fiorire di creatività. La titletrack occupa l’intera prima facciata e, con tempi arditi, rullatone, Moog e tanto Hammond, racconta di un’umanità guerrafondaia che, non imparando mai le lezioni del passato, adora autodistruggersi. Poi sull’altro lato si varia: Jeremy Bender è honky tonk, in The Only Way Hymn)/Infinite Space (Conclusion) Lake invita a non seguire le religioni, in Bitches Crystal vivono in 6/8 gli orrori  delle cacce alle streghe, nella grintosa A Time And A Place Palmer è una furia. A chiudere ci pensa lo scherzo rock’n’roll di Are You Ready Eddie?, dedicato al tecnico Eddie Offord.

Mario Giugni

emerson lake and palmer
TARKUS, Emerson, Lake & Palmer

Family, FEARLESS

(REPRISE, 1971)

Band come i Family sfuggono a qualsiasi definizione e costringono l’ascoltatore alla massima attenzione, nello sforzo di cogliere anche la minima sfumatura delle canzoni e, soprattutto, concentrarsi sull’album dall’inizio alla fine. La voce sgraziata e teatrale di Roger Chapman è il collante che tiene insieme l’iniziale articolata e potente Between Blue And Me, l’esotica Larf And Sing, la funky Take Your Partners e le altre canzoni di FEARLESS, che tutte assieme compongono un inno alla libertà di espressione, offrendo un’alternativa alla forma canonica che però non si rifugia mai in quel tecnicismo esasperato che ha già contagiato molta musica di quegli anni.

Jacopo Meille

family
FEARLESS, Family
Se ti è piaciuto questo estratto, leggi l'articolo completo "Anni 70, Gli Imperdibili - i 100 album da avere" nel numero di Le Grandi Glorie del Rock, con una cover story dedicata ai Jethro Tull. Puoi trovarlo nel nostro store online!
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

You May Also Like