Quando David Bowie si convertì dall’art-rock al pop

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David Bowie, Let’s Dance, Aschaffenburg, 1983 | © Mark Vitullo via Flickr
Nel 1983, per David Bowie l’art rock e i costumi da clown appartenevano al passato. Voleva diventare una superstar. E per riuscirci assoldò l’uomo che tutti chiamavano Hitmaker.

Al diavolo l’arte Balliamo!

Nell’estate del 1980, su una spiaggia vicino a Hastings nacque un nuovo David Bowie. Era lì per le riprese del video di Ashes To Ashes, la canzone che sarebbe diventata il suo secondo singolo n. 1, quando accadde qualcosa che, come lui stesso dirà, lo cambiò profondamente. Il regista David Mallet lo stava filmando mentre camminava lungo la spiaggia nei panni di Pierrot, lo stesso costume indossato sulla copertina di SCARY MONSTERS (AND SUPER CREEPS), quando un vecchio e il suo cane entrarono in scena. Il regista e la troupe urlarono al tipo di togliersi di mezzo. L’uomo – che probabilmente passeggiava ogni giorno lungo quella spiaggia – rimase impassibile: “Fottetevi”, disse, “questa è la mia spiaggia”.

Così Bowie si sedette vicino a Mallet, e aspettò che se ne andasse. A un certo punto il vecchio passò davanti ai due, e Mallet gli chiese: “Lo sai chi è?”. Il vecchio squadrò Bowie da capo a piedi. “Certo che lo so”, rispose. “È un coglione vestito da pagliaccio”. Bowie lo trovò esilarante. “È stato un momento fondamentale per me”, avrebbe detto in seguito. “Mi ha rimesso con i piedi per terra. E ho capito che era vero. Sono solo un coglione vestito da pagliaccio”. L’episodio in realtà ebbe un impatto molto più ampio e quando anni dopo raccontò questa storia, Bowie disse che l’incidente l’aveva “cambiato profondamente”. “La facciata che avevo costruito”, disse, “crollò di colpo”.

Le cose stavano cambiando, nel mondo di David Bowie. Il suo rapporto con i manager Tony DeFries e la Mainman finalmente si interruppe nel 1982, dopo una lunga separazione. SCARY MONSTERS era stato il suo ultimo album per la RCA, che era stata casa sua dai tempi di HUNKY DORY. L’etichetta stava sfruttando all’osso il catalogo in suo possesso con una serie di compilation – CHANGES ONE, CHANGES TWO, RARE. Quanto a Bowie, un accordo multimilionario con la EMI gli garantiva un nuovo inizio.

In un’intervista rilasciata a «The Face» prima dell’uscita di LET’S DANCE, il giornalista David Thomas suggerì che la EMI si augurava che LET’S DANCE potesse ripetere il successo di SOME GIRLS dei Rolling Stones, un disco ispirato alla scena disco di New York. “Assolutamente sì”, disse Bowie. “Tutto quell’entusiasmo per me era una cosa nuova. Erano anni e anni che nessuno me lo mostrava”. E parlava dei suoi vecchi dischi, come se fossero manufatti del passato. “Oggi voglio realizzare qualcosa che si esprima a un livello più universale, più internazionale”, dichiarò. Un anno prima, aveva conosciuto a New York Nile Rodgers. “Per me”, ha scritto Rodgers nella sua autobiografia Le Freak, “Bowie era sullo stesso livello di Miles e Coltrane, James Brown e Prince, Paul Simon e Jimi Hendrix, Joni Mitchell e Nina Simone. In altre parole, era un artista genuino e creativo, uno che faceva vera musica e non cagate”. I due s’incontrarono grazie al comune amore per il jazz: Rodgers era cresciuto in un ambiente bohémien, dove quando tornava a casa poteva trovare “Thelonious Monk, Nina Simone, e Miles Davis che cazzeggiavano nel nostro appartamento”. Come chitarrista, crebbe innamorato di leggende del jazz come Wes Montgomery e Django Reinhardt, e successivamente dei chitarristi della Motown edi musicisti funk come Eddie Hazel, Jimmy Nolen e Willie “Beaver” Hale. Come Bowie, era un’enciclopedia musicale ambulante e amava di tutto: rock, pop, soul, r&b, blues, jazz.

L’incontro fu casuale, ma nella testa di Bowie probabilmente si accese una lampadina. Il gruppo di Nile (gli Chic, formati assieme al bassista e compagno di avventure Bernard Edwards) era diventato uno dei più influenti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Aveva avuto hit internazionali mastodontiche – brani raffinati funky, eleganti come Good Times, Everybody Dance, Le Freak – e, con le sue sorprendenti linee di basso e chitarre sfavillanti, aveva ispirato tutti, dai Queen alla Sugarhill Gang, dai Clash ai Blockheads. Elegante e cool, depositario di un groove capace di resuscitare i morti, Rodgers era reduce dal lavoro su DIANA di Diana Ross, disco del 1980 di cui era coautore e produttore che si rivelò il maggiore successo della cantante. Nell’ambiente ormai lo chiamavano l’Hitmaker. I due decisero di fare un disco insieme, con Rodgers supereccitato all’idea di spingersi oltre i suoi confini, sostenuto da una star che non aveva la minima paura di sperimentare. Iniziarono ascoltando dischi da cui avrebbero potuto trarre ispirazione. Bowie raccontò a «The Face» di aver ascoltato “cose molto vecchie” prima di realizzare LET’S DANCE, perché voleva evitare i trend moderni. Disse che voleva “cose che non avrei fatto a pezzi... Cose come la Alan Freed Rock’n’Roll Orchestra e Buddy Guy, Elmore James... Albert King e Stan Kenton”. “Abbiamo cercato in giro, ascoltando tutti questi dischi diversi”, ha confessato Rodgers al Rolling Stone podcast, Music Now. “Ascoltavamo e provavamo di tutto: Hapshash and the Coloured Coat, Mott the Hoople, Peanut Butter Conspiracy. Le cose più ridicole, dagli hippie più hippie fino ai Ventures”.

Alla fine, Rodgers fece sentire a Bowie del materiale per un disco solista a cui stava lavorando. Gli spiegò in che modo avesse cercato di innovare e sperimentare, e di come credesse che gli artisti dovessero spingersi al di là dei propri limiti, quando Bowie lo fermò. “Voglio che tu faccia ciò che sai fare meglio”, disse. “Voglio che tu faccia delle hit”. La prima canzone su cui lavorarono fu Let’s Dance. Bowie la strimpellò su un’acustica a Rodgers, a cui sembrò “Donovan mischiato a Anthony Newley. E non lo intendo come un complimento”. “Mi resi conto che molti dei suoi brani mancavano di quel quid che acchiappa l’orecchio”, ha confidato a «Rolling Stone». La canzone era così elementare che Rodgers si chiese se non fosse una sorta di test. “Pensai che mi stesse mettendo alla prova, per capire se fossi solo un chiacchierone”.

Allora chiese a Bowie il permesso di arrangiarla in modo diverso. In varie video interviste, Rodgers ha dimostrato come prese il brano folk e in un primo momento lo rese più jazzato (“Sapevo che gli piaceva il jazz”) per poi manipolarlo ulteriormente, tramutandolo nella strana canzone funk mutante che conosciamo oggi. “Gli spiegai che ogni mia canzone parte dal ritornello”, confessa Rodgers. “E lui replicò: ‘Davvero? Ma è folle. Il brano lo costruisci per arrivare al ritornello’. E io gli dissi: “Già – be’ certo, se sei bianco al ritornello ci arrivi’”. La teoria di Rodgers era che le stazioni radio non avevano voglia di “perdere tempo” ad ascoltare i dischi di musica afroamericana, per cui dovevi andare dritto al sodo – non annoiarci, dacci il ritornello. Vinse lui: sul disco, dopo il crescendo ispirato ai modelli Isley Brothers/Beatles Twist And Shout, il ritornello e il titolo sono le prime parole che escono dalla bocca di Bowie.

 

Testo: Scott Rowley

Tratto da Classic Rock n°124

 

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