Staff - Stone Music https://stonemusic.it Il Portale in cui batte un vero cuore rock Fri, 09 Feb 2024 18:22:44 +0000 it-IT hourly 1 https://i1.wp.com/stonemusic.it/wp-content/uploads/2019/05/cropped-favicon-1.png?fit=32%2C32&ssl=1 Staff - Stone Music https://stonemusic.it 32 32 178453812 Soundtrack of my life: RICK ASTLEY | Classic Rock https://stonemusic.it/65297/soundtrack-of-my-life-rick-astley-classic-rock/ https://stonemusic.it/65297/soundtrack-of-my-life-rick-astley-classic-rock/#respond Fri, 09 Feb 2024 17:05:01 +0000 https://stonemusic.it/?p=65297 La pop star inglese dal cuore rock ci parla dei dischi, degli artisti e degli eventi che hanno un posto speciale nella sua vita.

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(di Dave Everley)

Vederlo esibirsi in una cover di Highway To Hell degli AC/DC, cantando e suonando la batteria, al festival di Glastonbury è stata una delle cose più elettrizzanti del 2023. Ma l’interprete di Never Gonna Give You Up ha solide credenziali rock, a partire dai suoi trascorsi nei primi anni Settanta, fino alla sua stretta amicizia con Dave Grohl.

LA PRIMA MUSICA CHE RICORDO DI AVER ASCOLTATO
Probabilmente, la colonna sonora de Il libro della giungla della Disney, nel 1967. Sono il più piccolo di quattro figli e mia sorella amava il prog, per cui a casa avevamo i primi dischi dei Genesis. Ma il primo disco che volevo sentire di continuo è stato sicuramente Il libro della giungla.

LA PRIMA CANZONE CHE HO ESEGUITO DAL VIVO
Alle elementari ho fatto la parte del Faraone nel musical di Webber e Rice Joseph And The Amazing Technicolour Dreamcoat: all’epoca non me ne rendevo conto, ma fondamentalmente era Elvis. A 14 anni ho iniziato a suonare la batteria, e il primo concerto serio è stato in una discoteca a San Valentino: suonai e cantai So Lonely dei Police. Fu un’impresa, perché quel pezzo ha un ritmo davvero strano.

IL MIO BATTERISTA PREFERITO
Phil Collins o Stewart Copeland. Mia sorella sentiva continuamente SELLING ENGLAND BY THE POUND e FOXTROT e molti anni dopo, grazie a YouTube, ho studiato per bene come suonava Phil Collins su quei dischi: è folle. E anche nei primi dischi solisti di Peter Gabriel, dove suona, è un mostro. Stewart Copeland invece è un eroe. Il batterista perfetto sarebbe una sintesi di loro due.

IL CANTANTE ROCK CHE AMO
Bon Scott. Quando il compianto dj Tommy Vance la trasmise alla radio, m’innamorai subito di Highway To Hell. Ero nel furgone di mio padre e ricordo di aver pensato: ‘Ma che cavolo è questa roba?!?’. Bon aveva carisma e una voce piena di personalità. Ho imparato a suonare la batteria provando e riprovando di continuo Highway To Hell...

 

…Continua sull’ultimo numero di Classic Rock, disponibile in edicola e online!

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JOE BONAMASSA parla di….MORTE https://stonemusic.it/614/joe-bonamassa-parla-di-morte/ https://stonemusic.it/614/joe-bonamassa-parla-di-morte/#respond Fri, 02 Feb 2024 17:53:55 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=614 “Hai paura di morire? Quando il tuo numero viene estratto, viene estratto. Puoi fare qualcosa per spostare i decimali, per così dire, e questo include il cercare di non abusare di se stessi…”

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Hai paura di morire?
Quando il tuo numero viene estratto, viene estratto.
Puoi fare qualcosa per spostare i decimali, per così dire, e questo include il cercare di non abusare di se stessi,
cadendo in tranelli che possono portare a una prematura dipartita.
Ma negli ultimi dieci anni credo di aver esaurito 4 passaporti diversi: viaggio molto.
La mia vita è nelle mani di qualcun altro.
Abbiate solo cura delle mie chitarre quando non ci sarò più.

Sei nervoso, quando voli?
Sì. Quello che è accaduto all’aereo malese è inquietante.
È il mio incubo peggiore.
Cerco di superare la mia paura di volare studiando le leggi fisiche che rendono il
volo possibile...
Ad esempio: quanto le ali dell’aereo possono piegarsi all’indietro in una turbolenza.
Ma precipitare nel bel mezzo dell’Oceano Indiano non è esattamente la mia idea
di party.
Mi sento così male per tutta quella gente che era su quell’aereo e per quelle famiglie che non
hanno idea di cosa sia successo ai loro cari.

C’è stata nella tua vita un’occasione in cui sei stato vicino al punto di morire?
L’ho sfiorato due volte.
Quando ero bambino, a New York, ero ingenuo come un chierichetto.
Non sapevo come uscire da un taxi nella City dal lato del marciapiede.
Una volta ho aperto la portiera e sono uscito dalla parte sbagliata,
mentre un altro taxi sfrecciava in senso opposto.
Mi ha mancato per pochi centimetri – ricordo molto bene quel paraurti!
La seconda volta che mi viene in mente è, in quella stessa primavera,
quando ero su un volo da New York a Los Angeles e ci siamo imbattuti in una turbolenza.
Il pilota ha perso il controllo del velivolo per un minuto buono. Un minuto terrificante.

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Quale è stata la tua prima esperienza della morte?
La mia trisavola è morta quando avevo cinque anni.
Vengo da una famiglia italo-newyorkese e lei viveva al piano sopra il nostro.
Allora non sapevo cosa fosse il cancro.
Un giorno lei era lì e il giorno dopo non c’era più.
Mi dissero che era andata in un posto migliore.
La seconda volta che incontrai la morte, invece, fu con Danny Gatton,
quando avevo 14 anni.
E’ stato il mio maestro di chitarra e mentore. Ero in un negozio di chitarre a Austin, nel Texas,
quando mi arrivò la notizia che si era ucciso. Non riuscivo a crederci.

Hai mai usato una ouija board (una speciale tavoletta usata nelle sedute
spiritiche, ndr) o consultato un medium?
No.
Considero entrambe le cose decisamente inquietanti.
Però credo negli spiriti, a volte si riesce a percepire qualcosa, ad esempio quando si visitano vecchi hotel.
Ma non mi piace l’idea di risvegliare i morti.
Credo che se avessero qualche conto in sospeso con me,
tipo il mancato pagamento di una chitarra, sarebbero loro a contattarmi…

Joe Bonamassa 2

Se ti fosse data la possibilità di contattare solo una persona dall’aldilà, chi sceglieresti?
Mi piacerebbe parlare con [il chitarrista dei Free - ndr] Paul Kossoff,
per capire dove aveva davvero la testa.
Da dove sono venute fuori quelle idee musicali?
Era stato influenzato dal blues, ok, ma come ha fatto a mettere insieme quegli accordi?
Sì, mezz’ora con Kossoff mi sarebbe davvero utile.

In cosa ti piacerebbe reincarnarti, eventualmente?
Ti dirò, così sto bene.
Magari, se potessi avere un altro centinaio d’anni a disposizione su questo pianeta,
non sarebbe male. È tempo sufficiente a fare qualche danno.

A proposito, pensi mai a quale sarà il tuo lascito una volta che non ci sarai più?
É buffo, ne abbiamo discusso animatamente in pullman, di tanto in tanto.
Credo che solo un ristretto gruppo di persone viva tanto a lungo da meritare quello status di
“leggenda” bona fide: mi vengono in mente Jimmy Page, Eddie Van Halen e Robert Plant.
Anche Willie Nelson. E Johnny Cash.
La maggior parte delle persone però non lo capiscono, e la parola “leggenda” viene usata con troppa
leggerezza.
Solo il tempo può giudicare il tuo retaggio. Ancora si parla di Buddy Holly e Otis Redding, giusto?

Ma speri comunque che la gente si ricordi di te tra cinquant’anni?
Certo che me lo auguro!
Ma non si sa mai. The Ballad Of John Henry potrebbe essere dimenticata o al
contrario celebrata.
Alla fine, chi se ne importa?
Molto probabilmente non sarò più da queste parti, tra cinquant’anni.

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Se potessi scegliere, come ti piacerebbe morire?
Preferibilmente mentre me ne sto seduto in una fattoria da qualche parte in Virginia, s
u una sedia a dondolo sulla mia veranda, con un vecchio cane da caccia accanto,
una Les Paul del ’59 sulle ginocchia, un sigaro e un bicchiere di bourbon Pappy Van Winkle,
in una notte di pioggia.
Questo sì che è un bel modo di andarsene.

E cosa ci sarà inciso sulla tua lapide?
Qui giace Joe Bonamassa.
Fine delle stronzate.

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GINGER BAKER parla di … DROGA https://stonemusic.it/607/ginger-baker-parla-di-droga/ https://stonemusic.it/607/ginger-baker-parla-di-droga/#respond Thu, 01 Feb 2024 16:46:05 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=607

Nel circuito jazz dal quale provieni, molti musicisti hanno avuto problemi con l’eroina.
Pensi che reggere quel tipo di vita richiedesse un “aiutino”?
Be’, i musicisti jazz erano parecchio soggetti a periodi difficili.
E lo sono ancora, dato che ancora oggi vengono pagati una miseria e non se ne lagnano mai.
I musicisti rock, invece, guadagnano un sacco di soldi e si comportano, e pretendono di essere trattati,
come altezze reali.
Per esempio hanno l’abitudine di girare in queste super-limousine, anche se devono percorrere dieci metri.
Una cosa tristissima.

Che tipo di influenza esercitò su di te il batterista jazz Phil Seaman?
Un’influenza bella forte, e molto positiva.
Ancora oggi circola questa vecchia storia che fu lui a farmi diventare eroinomane.
Ma non è la verità, usavo l’eroina già prima di conoscerlo.
E quando lui venne a saperlo, scoppiò in lacrime.
Ne fu proprio sconvolto.
Anni fa feci un provino per John Dankworth [un bandleader jazz, ndr]:
ottenni l’ingaggio, e poi subito dopo lo persi, perché si sparse la voce che ero un drogato [ride].

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Hai ottenuto il tuo primo grande successo all’inizio degli anni Sessanta, suonando con Graham Bond.
Ma in che condizioni era il Graham Bond che nel 1970 entrò nella tua band, la Ginger Baker’s Air Force?
Ti racconto un episodio:
io avevo programmato due concerti con gli Air Force, uno alla Birmingham Town
Hall e l’altro alla Royal Albert Hall.
Dopo lo show di Birmingham la polizia venne ad arrestare Graham.
Era successo che io avevo messo un pezzetto di hascisc, in un pacchetto di Rothman’s.
Quando la polizia portò via Graham, Denny Laine gli disse:
“Ehi Graham, prendi le sigarette”.
Poi si mise le mani nei capelli: “Cristo, gli ho dato il pacchetto sbagliato!”.
Il fatto divertente è che furono molto gentili con Graham e gli permisero di portarsi in cella le sue sigarette.
Quando aprì il pacchetto per fumarsene una, esclamò: “Cribbio!”, e passò tutta la notte a mangiare l’hascisc.
Così, quando si ripresentò per fare il concerto alla Royal Albert Hall,
il povero Graham non riusciva neppure a stare in piedi.
Comunque, di cose strane ne fece:
come quella volta che eravamo in tour e ci trovavamo a due miglia dal confine
con la Germania, e lui si accese una canna: capisci?
Noi eravamo a qualche minuto dalla fottuta stazione di dogana!
Graham era un genio, anche se a quell’epoca era cambiato parecchio:
quando suonava era ancora forte, ma il più delle volte non ci stava più con la testa.

Ginger Baker 2

Il tuo stile di vita si fece ancora più stravagante, all’epoca dei Cream?
Il fatto è che i Cream presero letteralmente il volo.
Dove con Graham prendevamo 14 sterline, con i Cream ne prendevamo 45.
Il mio problema era che perdevo la pazienza.
Avevo promesso a me stesso che non avrei mai più aggredito violentemente Jack Bruce.
Ma l’unico modo che avevo per tenere fede a questo proposito, era ficcarmi in un pub e sfondarmi di alcol.
Purtroppo, si tende a fare un sacco di fesserie.
Per esempio, una volta mi venne l’idea di portare a correre le mie Jensen in Giamaica, un week-end.
Quando sei pieno di grana, improvvisamente ti ritrovi circondato da gente che ti
aiuta a sprecarla.
Ovviamente una volta finita la grana, spariscono anche gli amici.
Tutti i soldi che avevo guadagnato con i Cream, li ho spesi in uno studio di registrazione in Nigeria.
E ho anche sprecato una fortuna acquistando cavalli da polo…

In che situazione ti sei trovato al tuo ritorno in Inghilterra nel 2011, dopo aver dilapidato tutti i tuoi averi in Sudafrica?
Per i primi sei mesi ho affittato un piccolo orribile bungalow a Whitstable [nel Kent, Inghilterra, ndr].
La mia famiglia era in una situazione del cazzo, con un sacco di problemi.
E questo provoca frizioni a livello personale.
Così tutto andò per il verso sbagliato, con la polizia e il resto.
Ma adesso ci siamo trasferiti in un posto più carino.
La mia figliastra, Lisa, studia al Kent College, una delle scuole migliori d’Inghilterra, ed è felice.
Costa un botto, ma ne vale la pena.

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I RED tornano in Italia con il nuovo album! https://stonemusic.it/65122/red-legend-club-milano/ https://stonemusic.it/65122/red-legend-club-milano/#respond Wed, 17 Jan 2024 11:08:02 +0000 https://stonemusic.it/?p=65122 Il quartetto alternative rock metal statunitense RED si esibirà dal vivo per un concerto unico domenica 16 giugno 2024 al Legend Club di Milano.

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Dopo un concerto di grande successoRED torneranno in Italia per un unico concerto quest’estate, a supporto del nuovo disco “RATED R”. I biglietti saranno disponibili da venerdì 19 gennaio alle 11 sul circuito ufficiale DICE.

Fondati nel 2002, con nomination ai GRAMMY e certificato oro dalla RIAA, RED abbinano costantemente una strumentazione sofisticata ad un songwriting incisivo. Dinamici, eclettici, avvincenti e personali, il loro talento artistico non è mai stato così evocativo e irresistibile come nel loro nuovo ottavo album in studio, “RATED R”.

Il seguito dell'acclamato “DECLARATION” del 2020 - in vetta alle classifiche per la loro etichetta indipendente, Red Entertainment - il nuovo disco, pubblicato a settembre 2023, vede la band affrontare diversi argomenti risonanti e rilevanti incentrati sulle divisioni ideologiche e interpersonali, confronti e sofferenze della società moderna. Si distingue per due importanti cambiamenti: Anthony Armstrong alla produzione al posto del partner di lunga data Rob Graves e l’ingresso del batterista Brian Medeiros che si unisce così ufficialmente ai fratelli Armstrong e all'inimitabile cantante Michael Barnes.

singoli Surrogates e Cold World” dimostrano il peso collaborativo e creativo di RATED R. “Abbiamo pubblicato DECLARATION un mese dopo l’inizio della chiusura dovuta alla pandemia, quindi non abbiamo mai potuto portarlo in tour adeguatamente e vedere cosa avrebbe potuto fare. Con RATED R, possiamo…La cosa davvero interessante è che saremo in grado di essere gli headliner e offrire l’esperienza live completa di RED per la prima volta dopo anni!” 

Non c’è mai stato un momento migliore per essere un fan dei RED: dallo straordinario debutto “End of Silence” del 2006 al celebre “DECLARATION”, i RED hanno ripetutamente impressionato e innovato. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che abbiano ottenuto numerosi riconoscimenti: pubblicazioni su Loudwire, Rolling Stone,Under the Radar e Guitar World; apparizioni in film, TV, videogiochi e milioni di vendite di album, streaming e follower dedicati.

RED
Domenica 16 giugno 2024 - Legend Club - Milano
Biglietto € 25 + d.d.p. su DICE da venerdì 19 gennaio alle 11
Evento FB https://www.facebook.com/events/924704181961900

 

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CARI CANTAUTORI… ma quanto costate!? | Vinile https://stonemusic.it/65085/cari-cantautori-ma-quanto-costate/ https://stonemusic.it/65085/cari-cantautori-ma-quanto-costate/#respond Sun, 14 Jan 2024 18:35:34 +0000 https://stonemusic.it/?p=65085 Prime tirature, edizioni rare e a tiratura limitata: ecco un piccolo viaggio, forse più uno slalom, tra questi dischi cantautorali che spesso diventano incubi per i collezionisti.

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di Michele Neri e Vito Vita
Album famosi e venduti in decine o centinaia di migliaia di copie e album misteriosi di artisti semi sconosciuti. Nella vastissima discografia dei cantautori italiani ci sono dischi che ormai hanno raggiunto quotazioni impressionanti…

Lucio Battisti, Fabrizio De André, Claudio Baglioni, Vasco Rossi e Lucio Dalla sono tutti campioni di vendita con decine di milioni di copie vendute all’attivo. Eppure nei loro cataloghi si trovano rarità dai costi proibitivi, vuoi perché si tratta di edizioni particolari, vuoi perché il successo non arrivò subito e quindi i primi dischi passarono inosservati. È sempre molto difficile (quasi antipatico) indicare le valutazioni dei dischi: il mercato è frastagliato e senza regole precise, la diffusione sempre più ampia di canali di vendita, fa sì che si vedano oscillazioni davvero imbarazzanti, come accade ultimamente per il primo album di Vasco Rossi, offerto a cifre che vanno da 3500 euro a oltre 20.000. A volte sono richieste propedeutiche unicamente ad attirare attenzione senza alcuna velleità di vendita, in altri casi si può quasi parlare di tentata truffa. Però la facilità nell’offrire dischi corrisponde anche a una certa facilità nel reperire quello che si può definire il “valore medio” di un determinato disco.

Semmai ci possono essere insidie nell’identificazione della prima tiratura o edizione di un disco, sull’esatta configurazione di una emissione: copertina apribile, presenza di inserti, dettagli anche minimi che la distinguono dalle successive stampe. Il modo di districarsi tra queste varianti si trova, noi proviamo a fornire qualche indicazione di base e prossimamente avvieremo una rubrica apposita in cui analizzeremo qualche disco per volta e in cui cercheremo di spiegare nel miglior modo possibile, come riconoscere la prima vera tiratura di ciascun disco. Nell’elenco che segue non troverete i sessanta dischi più rari o costosi, abbiamo preferito proporre un’ampia panoramica di dischi di cantautori famosi e sconosciuti, selezionando un album ciascuno, consapevoli che in alcune discografie (De André, Battiato, Battisti, Pelosi e altri) c’erano più titoli degni di figurare in questo articolo. Però eravamo affascinati dall’idea di riproporre Giorgio Laneve e Herbert Pagani, Gianni D’Errico e Franco Maria Giannini. Artisti di cui vale senz’altro la pena riscoprire le opere. Senza svenarsi sia chiaro... ci sono le ristampe.

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Come si chiama la mucca dei PINK FLOYD? https://stonemusic.it/63884/pink-floyd/ https://stonemusic.it/63884/pink-floyd/#respond Fri, 11 Aug 2023 16:43:03 +0000 https://stonemusic.it/?p=63884 Quale idea assurda c’è dietro la copertina di Atom Heart Mother, dei PINK FLOYD - ma soprattutto, perchè proprio una mucca?

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L'idea per la copertina di ATOM HEART MOTHER, divenuta celebre in tutto il mondo, nacque in seguito a una breve conversazione tra i Pink Floyd e i grafici della Hipgnosis, nell’estate del 1970. “I Floyd ci hanno detto che volevano qualcosa di non psichedelico”, ricorda il cofondatore della Hipgnosis, Storm Thorgerson. La Hipgnosis in precedenza aveva creato una serie di spirali cosmiche intrecciate per la copertina di A SAUCERFUL OF SECRETS e un’immagine nell’immagine per quella di UMMAGUMMA. Era tempo di cambiare.

“Volevo realizzare una non-copertina con un non-titolo e un non-concept album; qualcosa di diverso dalle altre copertine”, ha spiegato Thorgerson, sebbene fosse stato un amico di Storm, l’artista concettuale John Blake, a suggerire l’idea della mucca: “Credeva che fosse la cosa più lontana dalla psichedelia sulla faccia della terra”. La Hipgnosis fotografò la Frisona Lullubelle III e altri membri della sua mandria nel campo di un agricoltore a Potter Bar nell’Hertfordshire. La Hipgnosis propose ai Pink Floyd tre immagini: la mucca, una donna che entra da una porta e un uomo che si tuffa nell’acqua girato al contrario. Ma quando Roger Waters vide la mucca, scoppiò a ridere. La scelta avvenne in quel momento. Tuttavia, vendere l’idea alla EMI sembrava un’impresa più ardua. “La sezione che si occupava della grafica della EMI ci odiava”, ha detto Thorgerson. Dopo che gli mostrammo la copertina con la foto di una mucca ma senza il nome della band e il titolo del disco, ci odiarono ancora di più. “Ci accusarono di voler far fallire l’azienda. Ma i Pink Floyd ci sostennero fino in fondo”.

La presenza della mucca in copertina e le informazioni mancanti non impedirono al disco di avere un grande successo. Anzi, ATOM HEART MOTHER raggiunse la prima posizione in Gran Bretagna ed entrò nella Top 5 in Francia e in Olanda. In seguito (non si butta mai niente) la Hipgnosis riciclò l’immagine della donna che entra dalla porta per il disco del 1971 dei Principal Edwards Magic Theatre, THE ASMOTO RUNNING BAND, prodotto da Mason. L’immagine del tuffatore venne invece utilizzata sull’album del gruppo hard rock Def Leppard, HIGH’N’DRY, del 1981.

 

… continua sull’ultimo numero di Classic Rock n.127! Disponibile online e nelle migliori edicole.

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Le 4 rubriche di CIAO 2001 che ci hanno aiutato a crescere https://stonemusic.it/63801/rubriche-ciao-2001/ https://stonemusic.it/63801/rubriche-ciao-2001/#respond Wed, 02 Aug 2023 15:30:04 +0000 https://stonemusic.it/?p=63801 Non solo raccomandazioni musicali: ecco le 4 rubriche di CIAO 2001 che ci hanno fatto crescere insieme, attraverso la pubblicazione preziosissimi consigli e risposte ai nostri dubbi.

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Un compagno fidato, sia che si trattasse di musica, cinema, cultura; ma anche un amico con cui confidarsi, a cui raccontare i propri problemi, senza tabù. Generose nei consigli, sincere nelle parole dei temi trattati, vi riproponiamo le 4 indimenticabili rubriche di CIAO 2001 che sono state fondamentali nella crescita personale di ogni appassionato lettore.

1. HELP!

Gli annunci inviati dai lettori si dividono in due categorie: musicali e personali. La parte musicale comprende annunci riguardanti lo scambio o la vendita di dischi, musicassette, testi di canzoni o strumenti musicali, oltre a proposte per formare complessi musicali. Dall’altra parte, gli annunci personali spaziano dalle richieste di corrispondenza e contatti, agli inviti per vacanze e viaggi estivi, spesso in autostop o in moto. In questa rubrica, i contenuti raccolti da Giada, tra articoli, poesie e annunci inviati dai lettori, erano pubblicati nella categoria musicale. I temi trattati sono tra i più disparati, in un contesto di collettività, come ad esempio l’amore, che viene considerato più in senso hippy che in termini individuali, oppure riflessioni esistenziali espresse attraverso flussi di coscienza, ispirati dalla traduzione italiana del Jukebox di Ginsberg e il Tarantula di Dylan. In certi casi anche era evidente una contaminazione dalle canzoni pop italiane e da alcuni autori come Mogol o De Andrè nei versi delle poesie, tanto da creare uno stile peculiare e distintivo di poeti ispirati. Questa rubrica era il cuore pulsante della community affiatata di lettori di CIAO 2001, perchè attraverso la stessa passione per la musica si venivano a creare legami indissolubili e incentivi per ispirarsi a vicenda con contenuti artistici.

2. PSICOLOGIA E PSICANALISI

La rubrica, curata dal Prof. Fausto Antonini - l’amico psic - affronta apertamente problemi personali e intimi, con particolare attenzione ai temi caratteristici dell'adolescenza e della giovinezza, in altre parole la scoperta della sessualità. Le lettere pubblicate spaziano dalle sfumature della crescita adolescenziale fino ad arrivare a vere e proprie crisi esistenziali e d'identità. In passato, questi problemi non avevano uno sbocco sociale, a differenza dei giovani d’oggi che oltre un’amico con il quale potersi confidare, possono rivolgersi più liberamente e con molti meno pregiudizi a una figura professionale. Negli anni ’70, invece, c’era l’amico psic, che  sembrava essere il più adatto interlocutore per certi temi, capace di comprendere e affrontare i cosiddetti tabù. In alcuni episodi, la rubrica ha affrontato anche nozioni di educazione sessuale, toccando un argomento spesso censurato in molti contesti di comunicazione. Le discussioni riguardano la sessualità in generale, ma non si escludono approfondimenti sulle perversioni e devianze, reali o presunte. Tutti questi argomenti vengono trattati con rigore e scientifica puntualità, garantendo un approccio informativo e sensibile.

3. FERMATE IL MONDO, VOGLIO SCENDERE

In questa rubrica, il Direttore Saverio Rotondi affronta temi di critica sociale, politica e di costume, mantenendo uno stile pacato e mai estremo. Pur non firmando l'editoriale, il tono e l'intento della scrittura riconducono alla sua penna, dimostrando la sua capacità di dialogare alla pari con la giovane generazione di lettori. Le argomentazioni sono spesso "contro", come suggerisce il titolo stesso della rubrica, ma questa critica non è mai volta alla distruzione. Invece, si presenta come una critica costruttiva che prende atto delle istanze dei giovani, analizzandole con cura e fornendo sempre elementi positivi di risoluzione. Rotondi dimostra una comprensione profonda delle sfide affrontate dalla società e dai giovani, e si impegna a offrire soluzioni propositive, evitando di additare strade pericolose o estremismi storici. Questa rubrica controcorrente è diventata un punto di riferimento per coloro che desideravano una critica sociale e politica ponderata e responsabile, evitando gli estremismi e puntando al raggiungimento di un futuro migliore per tutti.

4. LETTERE AL DIRETTORE

Il direttore Saverio Rotondi si pone con equilibrio nel rispondere ai quesiti posti dai lettori, anche in questo caso cercando di smorzare ogni forma di estremismo. Gli argomenti affrontati sono diversificati, con richieste di articoli su gruppi o cantanti specifici, ma non solo. Alcuni lettori difendono con determinazione la musica pop o i suoi sottogeneri, mentre altri denunciano la carenza di concerti pop, soprattutto nelle regioni del sud. Emergono anche temi più personali, con alcuni lettori che esprimono disagio esistenziale e difficoltà nel rapportarsi con i valori della società attuale. Alcuni segnalano i primi problemi legati alla droga, anche se questi casi sono sporadici. Complessivamente, si dipinge l'immagine di una gioventù sostanzialmente sana, ma che sta attraversando una crisi epocale. Questa generazione sta subendo profonde trasformazioni riguardo agli oggetti e ai modelli di vita. Nel contesto delle rivendicazioni giovanili e della cultura pop, si fa menzione di annunci di familiari che cercano di contattare i figli scappati di casa, una pratica estrema che era stata consacrata e socializzata in un celebre brano musicale, "La tua prima luna" di Claudio Rocchi.

Leggi lo speciale su CIAO 2001, in edicola e online!

 

Tratto da: CIAO 2001

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I THE KINKS raccontano “Waterloo Sunset” https://stonemusic.it/639/i-the-kinks/ https://stonemusic.it/639/i-the-kinks/#respond Fri, 23 Jun 2023 12:42:54 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=639 Quando Ray Davies riversò i suoi sogni e le sue aspirazioni giovanili in una canzone destinata a diventare un classico del rock, oltre che l’inno ufficioso di Londra.

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Una mattina del febbraio 1967 Ray Davies caracollò giù dal letto nella sua casa un po’ cadente nella zona nord di Londra, e trovò una canzone ad aspettarlo. “Waterloo Sunset mi è apparsa in sogno”, racconta Davies a «Classic Rock». “Mi svegliai, e lei era là”. La canzone che sarebbe diventata uno dei classici del suo gruppo, i Kinks, e addirittura l’inno di Londra, iniziò in realtà come una lettera d’amore a un’altra città. “Originariamente meditavo di chiamarla ‘Liverpool Sunset’”, rivela Davies.

Amavo Liverpool e il Mersey Beat. Ma sapete cosa consigliano agli scrittori? Scrivete di quello che conoscete. E io, senza dubbio, conoscevo Londra meglio di Liverpool. Così cambiai soggetto. Waterloo è un posto molto importante per la mia vita”, continua Davies. “E ci avevo visto moltissimi tramonti. Una volta, da bambino, ero molto malato e mi trovavo al St Thomas Hospital quando ne vidi uno sul Tamigi. Anni dopo, andando a scuola al college art, mi capitava di passare sempre davanti alla stazione. E fu sempre a Waterloo che incontrai la mia prima ragazza, che poi sarebbe diventata la mia prima moglie”.

Come naturale per una canzone nata in sogno, i testi hanno un’atmosfera quasi impressionistica, molto più attenta agli stati d’animo che non a una narrazione lineare. E mentre Davies vaga nei suoi ricordi di gioventù, due nomi saltano fuori all’improvviso: “Cantai i nomi di Terry and Julie”, ricorda, “e mi sembrò che non servisse una spiegazione. Mi piaceva che l’ascoltatore ci mettesse del suo ed evocasse le sue immagini. Le sue personali. Se tutti si fossero fatti un’immagine di Terry e Julie, allora ognuno gli avrebbe attribuito il volto di qualcuno di sua conoscenza”.

All’epoca in molti si convinsero che quei due nomi si riferissero a una della coppie di attori più note della Swingin’ London, quella formata da Terence Stamp e Julie Christie. Ma Davies, sempre molto restio a svelare i segreti della canzone, nega il legame: “Penso che i personaggi abbiano a che fare con i desideri delle mie sorelle maggiori, che crebbero durante la Seconda guerra mondiale e si persero del tutto gli anni Sessanta. Pensavo al mondo che avrei voluto avessero loro”.

Alla canzone mancava però ancora un elemento che legasse strofe e ritornello, e Ray la suonò a suo fratello Dave: “Ebbi subito la sensazione che sarebbe stato un successo”, scrisse il più giovane dei Davies nella sua autobiografia Kink. “Aveva una linea di basso discendente ipnotica in un modo stupendo, che contrastava magicamente con le armonie vocali, che invece ascendevano, una tessitura sonora gentile ma anche inquietante. Iniziammo subito a canticchiare delle parti vocali sul ritornello”.

Quando Ray la fece sentire al produttore del gruppo, Shel Talmy, anche lui ne rimase impressionato: “Ray era uno degli autori più prolifici che avessi mai conosciuto. Sembrava fosse in grado di scrivere anche una dozzina di canzoni in una sola nottata, per poi venire a farmele sentire, in modo che io potessi scegliere  le più adatte. In tutto il tempo che lavorai con lui, le quattro che mi sembrarono da subito dei sicuri numeri uno furono You Really Got Me, Tired Of Waiting For You, Sunny Afternoon e Waterloo Sunset”.

Il 12 marzo il gruppo si radunò negli studi nella cantina della Pye Records, a London Marble Arch, per la registrazione della nuova canzone di Ray, che fu incisa in diretta su un quattro piste. Ma chi effettivamente ne fu il produttore, è rimasto a lungo in questione. Durante la produzione del disco del 1967, something else, i Knks e Talmy cessarono la loro collaborazione.

Ray si era detto insoddisfatto delle prime prove di Waterloo, e così decise di prodursela da solo.

Talmy naturalmente non è d’accordo su questa versione dei fatti: “L’ho prodotta io, e non so davvero chi possa affermare il contrario. Se ero menzionato nei crediti come produttore di una canzone, vuol dire che l’avevo rodotta io”.

Qualunque sia la verità, non c’è alcun dubbio che l’esecuzione del gruppo, che Davies descrive come “parca ma ben arrangiata”, fu magica. Dopo che Ray ebbe registrato la voce base, aggiunse una serie di arrangiamenti vocali a cascata, che vedono Dave, il bassista Pete Quaife, e la moglie di Ray, Rosa, cantare “oooh”. Ma mancava ancora il tocco finale. Racconta Dave Davies: “Ci baloccammo un po’ con alcune idee per la chitarra e suoni vari, prima di provare a deciderci:  vremmo dato alla chitarra un piccolo effetto delay, con un leggerissimo fuori sincrono. Funzionò alla grande”.

In una primavera prodiga di classici indimenticabili (A Whiter Shade Of Pale, Strawberry Fields Forever), Waterloo Sunset era perfettamente in linea con i tempi, e arrivò fino al numero 2 nelle classifiche uk. Ray Davies ama citare una cosa in particolare di quella prima scalata delle chart da parte della sua canzone: “Ricordo un momento in cui Jimi Hendrix e io eravamo tutti e due a Top of the Pops. Ci incontrammo nei corridoi e lui mi disse: ‘Amico, adoro la tua canzone’. E mi suonò Waterloo Sunset, usando le dita della mano sinistra per picchiettare le note sul manico della chitarra, assolutamente in Hendrix style”.

Hendrix non fu l’unico ad amarla: Pete Townshend e Damon Albarn mi hanno detto entrambi che è la loro canzone preferita. Il critico Robert Christgau la definì "La canzone più bella di tutta la lingua inglese”.

Nella classifica elaborata da «Rolling Stone» sulle 500 canzoni migliori di tutti i tempi, Waterloo Sunset si è piazzata al numero 42, e il popolarissimo «Time Out» la definì addirittura l’inno ufficiale della città di Londra.

Waterloo Sunset: una bellissima maledizione

Se le versioni cover sono il riconoscimento più grande della fortuna di un brano, allora Ray può dirsi soddisfatto, visto che fra gli artisti che si sono dichiarati fan di Waterloo Sunset ci sono David Bowie, i Def Leppard e Peter Gabriel. Eppure malgrado tutto questo, Waterloo Sunset divenne quasi una maledizione per Ray, che nel 1976 disse: “Quel che mi preoccupa è che quando la gente sente le mie nuove canzoni dice: ‘Ah, ecco la nuova Waterloo Sunset di Ray’”.

E nel 1970, quando lo interrogarono sulla canzone, osservò: “Graham Greene non può scrivere sempre e solo Brighton Rock. Gli autori possono solo farsi venire in mente idee nuove”. Ma nell’album del 2010 see my friends, disco dove Ray duetta con altri artisti rifacendo classici dei Kinks, si sentì abbastanza a suo agio da rivisitare la canzone in un duetto assieme a Jackson Browne. Sebbene Ray ami ascoltare altri artisti misurarsi con quella che è diventa la sua canzone più rappresentativa, deve ammettere che “Nulla può ricatturare l’atmosfera della versione originale dei Kinks. Quando entra in scena la chitarra di mio fratello, accade qualcosa di davvero magico”.

 

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La nascita dei Ramones https://stonemusic.it/627/la-nascita-dei-ramones/ https://stonemusic.it/627/la-nascita-dei-ramones/#respond Fri, 03 Mar 2017 11:00:06 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=627 Suonavano male, vestivano come una glam band Eppure il loro sgangherato debutto newyorchese di appena 17 minuti accese…

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Suonavano male, vestivano come una glam band

Eppure il loro sgangherato debutto newyorchese di appena 17 minuti accese la miccia dell’intero fenomeno punk.

È impossibile indicare con precisione il Big Bang del punk, ma la prima apparizione in pubblico dei Ramones sul palco del CBGB a New York, nell’agosto del 1974, è un candidato illustre.
Il gruppo aveva iniziato a vedersi in giro pochi mesi prima: erano un trio che comprendeva il cantante/chitarrista Douglas Colvin, il chitarrista solista John Cummings e il batterista Jeffrey Hyman, seguiti dal produttore Tommy Erdelyi.
Dopo il debutto, Hyman cambiò posto e da dietro i tamburi passò al microfono cambiando nome in Joey, Colvin passò al basso e iniziò a farsi chiamare Dee Dee e la band adottò il nomignolo vagamente denigratorio di Ramones.
La rivoluzione era partita.

Tommy Ramone:
I Ramones furono una mia idea. All’inizio erano un concept e io facevo da coordinatore artistico, ma la cosa funzionò molto meglio di quanto pensassi. Il primo giorno del liceo incontrai Johnny e grazie alla musica diventammo amici. Continuavamo a vederci, ma lui aveva smesso da anni di suonare. Lavorava nell’edilizia. Ma io continuavo a chiamarlo e a incoraggiarlo a tornare a suonare. Ero disgustato dalla scena musicale. E così mi dissi: ‘E se facessimo qualcosa di nuovo?’. Dissi a Johnny che avevo uno studio [i Performance Studios] e che volevo mettere assieme un gruppo. Joey a quel tempo si faceva chiamare Jeff Starship e cantava in un gruppo chiamato Sniper.

Handsome Dick Manitoba (cantante dei Dictators):
Joey era sempre in mezzo. Non potevi fare a meno di notarlo. Era molto alto, magrissimo e aveva un look assolutamente unico. “ Chi è quel tipo?”, chiedevo. “Quello? Ma è Jeff Starship”.

Dee Dee Ramone:
Una sera vidi suonare gli Sniper: Joey era il cantante e fu grandioso. Sembrava proprio malato. Pensai che era perfetto, perché era così strano. E il modo in cui oscillava verso il microfono era davvero assurdo. Continuavo a chiedermi: “Ma come fa a stare in equilibrio?”. Tutti gli altri cantanti copiavano David Johansen (all’epoca frontman delle New York Dolls), che a sua volta copiava Mick Jagger, e io non lo sopportavo più. Joey invece era assolutamente unico.

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Joey Ramone:
Mi vestivo seguendo un mio stile personale: avevo una specie di tuta nera da paracadutista, tipo seta, fatta con vari pezzi e ai fianchi portavo una di quelle catene fatte con le pallottole, e in più tenevo la lampo aperta. Poi dei guanti di pelle nera, lunghi fino al gomito, e una catena. Stivali rosa con tacchi di dodici centimetri, chiodo nero di pelle, occhiali da sole neri, capelli lunghi. Molto androgino, ma a quei tempi andava bene. Va anche detto che molti volevano ammazzarmi.

Foto via: carboncostume.com

Tommy Ramone:
Fu Dee Dee a uscirsene col nome Ramones. Suonava come un cognome, e così iniziammo a usarlo come se fosse il nostro.

Joey Ramone:
All’epoca dei Silver Beatles, Paul McCartney prenotò una stanza in un albergo usando il nome Paul Ramon. Siccome Dee era un fan sfegatato di McCartney, assunse l’identità di Dee Dee Ramone. E quando io mi unii a Dee Dee, decidemmo di chiamare il gruppo i Ramones.

Monte A. Melnick (comproprietario dei Performance Studios e futuro road manager dei Ramones):
Per circa un anno, la gente li credette un gruppo messicano formato da quattro fratelli.

 

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Joey Ramone:
Quando sono entrato nel gruppo, mi sono portato dietro due canzoni che avevo già scritto, ‘I Don’t Care e Here Today’, ‘Gone Tomorrow’.

Tommy Ramone:
Cercammo di incanalare l’energia in qualcosa di creativo. Il fatto che fossimo così in gamba nello scrivere canzoni fu un bel vantaggio.

Monte A. Melnick:
La prima volta che vidi i Ramones… lascia perdere. Non potevi proprio ascoltarli. Francamente non gli prestai molta attenzione. Erano molto estremi, molto grezzi. Gli ci vollero alcuni mesi per iniziare a migliorare.

Johnny Ramone:
La prima volta che ci ritrovammo in studio, cercammo di fare canzoni di altri gruppi, ma non ci riuscimmo, perché avevamo appena iniziato a suonare. E così, a partire dalla session successiva, decidemmo di scrivercele da soli. Il primo giorno scrivemmo ‘I Don’t Wanna Walk Around With You’.

Monte A. Melnick:
Rappresentavano una musica dei primi anni Settanta: gli spettacoli colossali, gli eccessi, i lunghissimi assoli di chitarra. Facevano ciò che erano in grado di fare e semplificarono ogni cosa: canzoni brevi, suonate molto veloce, niente assoli di batteria, niente assoli di chitarra. Svilupparono il genere, fu tutto calcolato.

Joey Ramone:
Quando iniziammo a scrivere, le canzoni riguardavano le nostre frustrazioni e i nostri sentimenti di alienazione, di isolamento. Il rock’n’roll dell’epoca consisteva in un miscuglio di Pink Floyd e ELP, e tutta quella robaccia. Così, fondamentalmente, quello che facemmo noi fu di andare alla radice, scomporlo e ricomporlo, e rimetterci dentro l’eccitazione, il divertimento, lo spirito, l’energia grezza, la pura emozione, in sintesi l’attitudine giusta.

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Monte A Melnick:
Avevamo uno spazio al Performance. C’era un piccolo palco, un impianto luci e le attrezzature. I gruppi venivano e facevano volantinaggio nella zona, invitando un pubblico di amici e appassionati per rimediare qualche soldo, e naturalmente tentavano di convincere quelli delle case discografiche a venire a vederli. I Ramones lo fecero parecchie volte, e io mi occupavo delle luci e del suono.

Johnny Ramone:
Il 30 marzo 1974 invitammo i nostri amici a vederci: il risultato fu che gli facemmo schifo e non furono più nostri amici. Non eravamo pronti a suonare davanti a un pubblico.

Monte A. Melnick:
Dee Dee non riusciva a suonare il basso e contemporaneamente a cantare. E Tommy sapeva che Joey aveva una bella voce, così lo tirò fuori da dietro la batteria.

Tommy Ramone:
Decisi di toglierlo da lì dietro e metterlo davanti al pubblico. Pensai che sarebbe stato un cantante assolutamente unico, perché non c’era nessun altro come lui. Ma questo significava anche che ci serviva un nuovo batterista.

Joey Ramone:
Trovammo un altro batterista, ma era drogato fino alle orecchie. Così continuammo con i provini. Alla fine era sempre Tommy a dire al nuovo batterista come avrebbe dovuto suonare.”

Monte A. Melnick:
Nessuno era in grado di suonare la batteria così come serviva a loro. Tommy era un chitarrista, ma cercava di mostrare agli altri batteristi cosa fare. Solo che così facendo, alla fine, fu lui a definire lo stile Ramones per la batteria. A un certo punto gli altri gli dissero: “Non è più semplice se suoni tu?”. E così fece.

Chris Stein (chitarrista dei Blondie):
Introdussi i Ramones al CBGB perché avevo conosciuto Tommy quando suonava al Mercer Arts Centre con una banda chiamata Butch. Tommy un giorno si avvicinò e mi disse: “So che suonate in un bar strano. Come si chiama?”. E io risposi: “CBGB”.

 

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Tommy Ramone:
Non avevamo ancora il look Ramones, tutto jeans e giubbotti di pelle – quello arrivò poco dopo. Dee Dee e io assomigliavamo già ai Ramones, ma Johnny e Joey erano ancora parecchio sbrilluccicosi.

Dee Dee Ramone:
Joey usava vestiti di gomma, John preferiva la plastica nera e i pantaloni argentati. Eravamo grandi!

Lee Black Childers:
Il pubblico era composto da sei persone. Non scherzo. Sei. Poi i Ramones salirono sul palco e io mi dissi: “Oh… Mio… Dio!”.

Tommy Ramone:
Eravamo come i Beatles sotto anfetamina. O come, se magari eri un lettore di Superman, la versione Bizarro dei Beatles (nei fumetti Bizarro è la versione di Superman, che fa tutto il contrario dell’Uomo d’Acciaio)

Tommy Ramone:
Fu eccitante. Una serata soddisfacente. Nel programma c’era anche un gruppo da San Francisco, i Cockettes si chiamavano, una specie di gruppo drag, per cui era un programma molto vario. Ma il posto era vuoto. C’erano tre o quattro persone, e il barista. Litigare sul palco faceva parte dell’aggressività della musica. Era per divertirsi. Magari avevamo attaccato la canzone sbagliata, o discutevamo su quale pezzo suonare. Faceva parte della scena. Dopo i litigi suonavamo meglio. A Hilly piacemmo, e ci richiamò. Finimmo col diventare delle presenze abbastanza regolari. Non ricordo bene, ma probabilmente per quello spettacolo non fummo nemmeno pagati.

Joey Ramone:
Iniziammo a suonare al CBGB una volta alla settimana, poi due. Suonavamo di continuo, e alla fine un sacco di altri gruppi iniziarono a imitarci. Nel 1975 ci fu un Summer Rock Festival e l’attrazione di punta della prima serata fummo noi. Arrivò un sacco di stampa, e da lì in poi le cose iniziarono a ingranare.

Tommy Ramone:
Il CBGB fu molto importante per noi. Fummo davvero fortunati ad avere un posto come quello, perché non avremmo potuto suonare da nessun’altra parte. Era perfetto. Era quello adatto a noi. Entro un anno nacque un’intera scena musicale.”

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JOHN MELLENCAMP parla di … EREDITA’ https://stonemusic.it/964/john-mellencamp-parla-di-eredita/ https://stonemusic.it/964/john-mellencamp-parla-di-eredita/#respond Tue, 22 Sep 2015 08:59:35 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=964 Che tipo di eredità credi che avrai lasciato, una volta uscito di scena? L’idea che un giorno qualcuno…

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Che tipo di eredità credi che avrai lasciato, una volta uscito di scena?
L’idea che un giorno qualcuno si preoccuperà di sapere chi è stato John Mellencamp è follia.
Quando sei giovane, sei tutto preso da questa fissazione di suonare per lasciare un’eredità.
Poi cresci e ti rendi conto che non esiste nessuna fottuta eredità da lasciare.
Le cose che la gente ricorderà sono queste: c’era una band chiamata Beatles,
un’altra chiamata Rolling Stones e un tizio chiamato Bob Dylan. Tutto qui.
E i Clash? Mettetevi in riga ragazzi, siete soltanto una nota a margine, come tutti noialtri.

Eppure per registrare il tuo ultimo album, no better than this,
hai usato luoghi mitici come i Sun Studios di Memphis e la camera d’albergo di San Antonio,
Texas, dove Robert Johnson incise le sue canzoni.
Non c’era in questa scelta l’intenzione di agganciarti a qualcosa di eterno?
Mai pensata una cosa del genere.
L’idea di usare quelle location è molto più pragmatica.
Abito lì vicino e mi sono detto: non sarebbe bello andarci a suonare?
Ti dirò che in ciascuno di questi luoghi c’era davvero un’atmosfera unica.
Particolarmente ai Sun Studios, alle tre del mattino, quando il resto del mondo dorme in silenzio.
Tu esci fuori e non c’è neanche un rumore, neppure un’auto che passa.
Solo zanzare. Una cosa fantastica.

Che ne pensi dello stato in cui versa il rock’n’roll oggi?
Penso che il rock’n’roll sia finito da un pezzo.
Non ci saranno più dei nuovi Beatles, un nuovo Dylan o un nuovo Johnny Cash.
Nessuna rivoluzione paragonabile al Punk o al Grunge verranno più a salvare il music business.
È stato fatto tutto.
Le case discografiche hanno deciso di voltare le spalle agli artisti che hanno una storia,
come me ad esempio, e si sono messe a cercare ragazzotte in vestiti attillati.
Il che va bene.
Quelli come me sono diventati trofei da esporre su uno scaffale:
forse eravamo diventati troppo costosi da gestire.
Meglio prendere queste ragazzine di sedici o diciassette anni,
con i genitori che gli fanno da manager, e fregarle come si faceva con gli artisti neri
negli anni Venti o Trenta.
E poi c’è Internet, che io considero l’invenzione più pericolosa dopo la bomba
atomica. Internet ha autorizzato la gente a rubare la musica.

Così, ti consideri uno degli ultimi superstiti di un mondo finito?
È così. Perfino all’interno della mia generazione.
Quando ho iniziato, eravamo un sacco.
Adesso siamo rimasti in pochissimi, Tom Petty, Elvis Costello, Springsteen, io.

C’è la diffusa convinzione che il rock’n’roll sia una faccenda per giovani, eppure
negli ultimi tempi la musica più stimolante arriva da artisti della tua generazione.
Negli anni Sessanta e Settanta la gente era convinta che non sarebbe
mai stata migliore di com’era allora.
Io invece non ho nessun problema nell’essere migliore di quanto non fossi da giovane,
perché allora ero veramente terribile.
Arrivai a New York dall’Indiana, per frequentare un liceo artistico, e avevo con me un demotape. Ero un cantante da locali, cantavo qualunque cosa fosse popolare in città.
Non mi era mai balenata per la mente l’idea che avrei potuto vivere di musica,
tantomeno incidere dei dischi.
Cantavo perché ero capace di farlo e perché c’erano le ragazze.
L’idea di pianificare ciò che avrei fatto della mia vita fino a oggi non mi sfiorava neppure,
anzi probabilmente neanche pensavo che avrei vissuto fino alla mia età.
Quando mi offrirono un contratto discografico, pensai:
“Volete davvero che io scriva delle canzoni?”.
In tutti i miei primi dischi praticamente ho imparato a scrivere canzoni.
E cazzo, ci sono riuscito.
Non sarò bravo quanto Springsteen o Petty, ma sono meglio di tanti altri.

All’inizio il tuo soprannome era Little Bastard. Era un nomignolo appropriato per te?
Negli anni Ottanta il mio produttore era Don Gehman.
In realtà il suo vero compito era evitare che facessi delle cazzate:
a quell’epoca ero fuori di testa e parecchio incazzato.
Ce l’avevo sempre con qualcuno e non facevo che fare a botte e imprecare,
non ero una persona piacevole.
Quindi sostanzialmente il suo compito era dirmi: “John, stai esagerando”.

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Perché tutta questa rabbia?
Credo sia il mio dna. Sono cresciuto in mezzo a uomini incazzati.
Mio padre, mio nonno, i miei zii, erano tutti così.
Se sbagliavi con loro, la pagavi. Ti borbottavano qualcosa tra i denti e ti colpivano.
Non si perdeva tempo in chiacchiere, era una roba tipo:
“Chiudi quella cazzo di bocca!”, e subito partiva il cazzotto.
L’idea che mi ero fatto è che avrei provato a essere un uomo migliore,
poi intorno ai trent’anni mi accorsi che non lo ero diventato per niente.
Adesso però non faccio più quel genere di cose, non tanto almeno.
Sono più un vecchio irritabile.

C’è stato un momento della tua vita nel quale ti sei sentito indistruttibile?
Certo. Ancora oggi a volte mi capita di pensarlo.
Ma nel periodo a cavallo fra Scarecrow (1985) e Big Daddy (1989) veramente ho pensato
di essere invulnerabile. Poi ho avuto un infarto.
Cazzo, quella cosa mi ha lasciato di sasso.
Per i due o tre anni che seguirono, non ho fatto altro che starmene a casa a crescere i miei due figli. E quelli sono stati i migliori anni di tutta la mia vita.

Cosa c’è nel tuo futuro?
M’interessano un sacco di cose.
Penso che questo sia il vero problema di un sacco di persone – il fatto che perdono interesse
verso la vita.
Più invecchio, meno ho paura della morte. Andremo da qualche parte, dopo?
Non lo so e sinceramente non mi interessa saperlo. Se c’è un’altra vita dopo questa, lo scoprirò.
Se non c’è, va bene uguale, ho fatto una bella corsa.

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NICK MASON parla di … SUCCESSO https://stonemusic.it/959/nick-mason-parla-di-successo/ https://stonemusic.it/959/nick-mason-parla-di-successo/#respond Tue, 22 Sep 2015 08:59:35 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=959 Una volta hai detto: “Non sono famoso, ma faccio parte di un gruppo famoso”. Pensi che sia ancora…

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Una volta hai detto: “Non sono famoso, ma faccio parte di un gruppo famoso”.
Pensi che sia ancora vero?
Sì.
Per qualche strana ragione, anche se mi sento come se facessi parte del National Trust.
E adesso la gente vuole fare una visita attorno a quell’edificio che si chiama Nick Mason.

Qual è stata la prima pop star che hai incontrato?
Quando studiavamo al Politecnico di Regent Street (insieme ai futuri Pink Floyd Roger Waters e Rick Wright), andavamo ad ascoltare lo Spencer Davis Group, e lì conobbi il loro cantante,
Steve Winwood.

Quanto a voi Pink Foyd interessava essere famosi?
Eravate attratti dall’idea di essere inseguiti da sciami di ragazzine adoranti,
o pensavate solo alla musica?
Non abbiamo mai pensato solo alla musica. Tutti noi volevamo essere delle pop star.
O forse pensavamo di volerlo.
Quando iniziammo, eravamo una band rhythm&blues, e si trattava di piacere a un pubblico prevalentemente maschile.
Alla stampa piace pensare che il mondo del rock’n’roll sia tutto ragazzine in delirio,
ma in realtà non è mai stato così:
c’erano solo capelloni che andavano in giro in impermeabile e pantaloni a zampa di elefante.

Come ti sei sentito quando facesti la tua prima apparizione a Top of the Pops,
nell’estate del 1967?
Probabilmente, il giorno dopo mi svegliai con l’idea che da allora in poi tutto sarebbe stato diverso. Anche tu lo avresti fatto, poi però andai a casa e non successe nulla:
le strade non si erano di colpo riempite di gente che gridava il mio nome.
Ancora oggi, covo la segreta speranza di svegliarmi e scoprire di essere diventato
una famosa pop star. Purtroppo, non accade mai.

Il disinteresse di Syd Barrett per la celebrità mutò in qualche modo l’attitudine del resto dei Pink Floyd?
Ci polarizzò. Noi desideravamo essere pop star. Lui no.
Non riuscivamo a capire come mai tutti noi condividessimo questo obiettivo e lui invece no.

C’è stato un momento della carriera dei Pink Floyd in cui la gente iniziò a riconoscervi?
No, le cose non stanno così.
C’erano alcune nostre fotografie sulle copertine di qualche disco, quindi c’è sempre stato qualcuno che vedendoci ci riconosceva.
Comunque, è più facile essere riconosciuti quando si sta insieme agli altri, che quando si sta da soli.

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The dark side of the moon è senza dubbio il disco più famoso dei Pink Floyd.
Qual è invece il meno conosciuto?
Il secondo album, a saucerful of secrets.
Che però conteneva un mucchio di idee che ci aiutarono a capire in che direzione esattamente stavamo andando.

Hai mai desiderato di essere più famoso per il tuo modo di suonare?
No, non sono quel tipo di persona convinta che meriterebbe di essere votato in un referendum sui grandi strumentisti.
Sono consapevole di possedere un feeling e uno stile che funzionano molto bene per noi.
Ma non ho mai tenuto lezioni in una master class, né ho intenzione di farlo adesso.
Quando me lo propongono, di solito rido nervosamente e dico di avere male al polso.

Il fatto di essere un Pink Floyd ti ha aiutato nella tua attività parallela di pilota sportivo?
Sì.
Ovviamente in quell’ambiente si sa chi sono, né provo imbarazzo nello sfruttare questa cosa al fine di ottenere sponsorizzazioni o finanziamenti per una buona causa.
Per iniziative come Children in Need sono felice di essere il Nick Mason dei Pink Floyd,
o il Nick Mason proprietario di tutte quelle vecchie buffe automobili.

Ricordi la prima volta che firmasti un autografo?
È successo abbastanza presto, probabilmente lo diedi a qualcuno che non sapeva neanche chi fossimo.
Per lui eravamo solamente la quarta band sul cartellone degli Amen Corner, o qualcosa del genere.

E l’ultima?
Ieri, a Goodwood.
Non rifiuto mai un autografo, come invece certe volte fa David [Gilmour].
Ovviamente, quando devo farne troppi esito un po’,
e tendo a firmare in modo un po’ approssimativo.

Chi è il più famoso componente dei Pink Floyd?
[dopo una lunga riflessione] Quello che da tempo non è più nella band.
David è famoso per il suo modo di suonare la chitarra ed è considerato fra i top player.
Roger è visto come un grande autore, mentre Rick è quello più sottovalutato, a
pprezzato assai più ora di quando stava con noi.
Quanto a me, sono assolutamente il Pink Floyd meno conosciuto.
Ma, senza dubbio, sono il più modesto.

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Earth – Recensione – Primitive And Deadly https://stonemusic.it/905/earth-recensione-primitive-and-deadly/ https://stonemusic.it/905/earth-recensione-primitive-and-deadly/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:51 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=905 Artista: Earth Titolo: Primitive And Deadly Etichetta: SOUTHERN LORD Autore: Renato Massaccesi   Desert sessions number… Da una…

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EARTH PRIMITIVE AND DEADLY

Artista: Earth
Titolo: Primitive And Deadly
Etichetta: SOUTHERN LORD
Autore: Renato Massaccesi

 

Desert sessions number…
Da una band che ha “rubato” il nome alla prima incarnazione dei Black Sabbath, sappiamo già cosa aspettarci.
O, perlomeno, sappiamo che durante l’ascolto del decimo disco di questo gruppo storico, il doom degli antenati verrà trasportato in altri anni e in tutt’altra parte del pianeta. La band arriva da Seattle ma non è caduta nei tentacoli del grunge, piuttosto sembrerebbe uscita da qualche meandro del Gran Canyon, portandosi appresso quell’atmosfera che alimentava le compiante DESERT SESSIONS di Josh Homme (ve le ricordate?). Tra l’altro, come quelle, anche PRIMITIVE AND DEADLY è nato al Rancho De La Luna (il leggendario studio nel deserto del Joshua Tree) e, visto che c’erano, si sono fatti prestare anche Mark Lanegan, che ormai sta un po’ dappertutto. Cinque pezzi chilometrici, prevalentemente strumentali, dove, tra il doom e l’immancabile stoner, sembra anche di sentire una rivisitazione dei tardi Doors, con la Gibson di Manzarek sostituita da drones di chitarre monolitiche (There Is A Serpent Coming). Tra rettili vari, un signor disco.

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Blackberry Smoke – Recensione – Leave A Scar Live In North Carolina https://stonemusic.it/899/blackberry-smoke-recensione-leave-a-scar-live-in-north-carolina/ https://stonemusic.it/899/blackberry-smoke-recensione-leave-a-scar-live-in-north-carolina/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:51 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=899 Artista: Blackberry Smoke Titolo: Leave A Scar-Live In North Carolina Etichetta: EARACHE Autore: Enzo Curelli   Alla vecchia…

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BLACKBERRY SMOKE LEAVE A SCAR LIVE IN NORTH CAROLINA

Artista: Blackberry Smoke
Titolo: Leave A Scar-Live In North Carolina
Etichetta: EARACHE
Autore: Enzo Curelli

 

Alla vecchia maniera
Non sarà certo AT FILLMORE EAST e nemmeno ONE MORE FROM THE ROAD, ma questo doppio album live della southern band di Atlanta (anche in versione Dvd per chi vuole tenere gli occhi impegnati), è ciò che più si avvicina, oggi, alle atmosfere Seventies di dischi epocali come quelli, monumenti insuperati di un modo di suonare e intendere il rock che hanno fatto scuola e tanti discepoli. Se le vecchie band ancora in piedi, anche grazie a cerotti e comparse, corrono dietro al moderno pur di tenersi a galla, le nuove generazioni giocano sul sicuro, risultando spesso più credibili e convincenti. La dura gavetta fatta aprendo per mostri sacri come ZZ Top, Lynyrd Skynyrd e Marshall Tucker Band trova la giusta e meritata ribalta in queste 22 canzoni (con l’inedito Payback’s A Bitch), che esaltano i tre lavori in studio prodotti fino a oggi, con l’ultima, The Whippoorwill, a testimoniarne la maturità acquisita. Ingredienti vecchi ma sempre gustosi: trascinanti e alcolici honky tonk, country rock, epiche rincorse hard blues.
La migliore band sudista degli anni 2000?
7/10

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Engineers – Recensione – Always Returning https://stonemusic.it/916/engineers-recensione-always-returning/ https://stonemusic.it/916/engineers-recensione-always-returning/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:50 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=916 Artista: Engineers Titolo: Always Returning Etichetta: KSCOPE Autore: Lorenzo Becciani   L’album della maturità Il quarto lavoro in…

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Engineers_-_Always_ReturningArtista: Engineers
Titolo: Always Returning
Etichetta: KSCOPE
Autore: Lorenzo Becciani

 

L’album della maturità
Il quarto lavoro in studio del progetto che vede coinvolti il polistrumentista Mark Peters, il produttore ambient Ulrich Schnauss e il batterista e pianista Matthew Linley, si candida come una delle uscite dell’anno in casa Kscope. L’etichetta di post progressive sound ha puntato sul trio fin dal secondo album, THREE FACT FADER del 2009, e ha visto giusto, perché il mix tra elettronica, pop e psichedelia è superbo e anche l’aspetto lirico è curato nei dettagli. Il coraggioso approccio compositivo è difatti accompagnato da tematiche oscure, che riportano alla mente i concept prog degli anni Settanta e regalano fascino all’intero apparato strumentale. It Rings So True, Searched For Answers e la title-track i passaggi imperdibili di un album ipnotico e sensuale, che cresce di ascolto in ascolto e che, a livello di arrangiamenti,
non teme concorrenti.
8/10

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Joe Bonamassa – Recensione – Different Shades of Blue https://stonemusic.it/921/joe-bonamassa-recensione-different-shades-of-blue/ https://stonemusic.it/921/joe-bonamassa-recensione-different-shades-of-blue/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:50 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=921 Artista: Joe Bonamassa Titolo: Different Shades of Blue Etichetta: MASCOT Autore: Davide Zucchi   Joe imbocca la strada…

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JOE BONAMASSA Different Shades of BlueArtista: Joe Bonamassa
Titolo: Different Shades of Blue
Etichetta: MASCOT
Autore: Davide Zucchi

 

Joe imbocca la strada giusta, e non si distrae
Il ragazzaccio di Utica è tornato. Questa è una non notizia, visto il ritmo seriale con cui Joe stampa dischi (o li mette a disposizione nei formati più svariati). Diciamo subito che DIFFERENT SHADES OF BLUE è il tipico Bonamassa-record, composto ed eseguito bene, senza passaggi a vuoto e con l’ormai consolidata capacità di alternare brani lenti e blues, ad altri più scatenati, passaggi di bel canto a cavalcate strumentali. Una ricetta che il chitarrista ha oramai collaudato, complice una vena compositiva prolifica che, giova ricordarlo, negli ultimi anni ha avuto un’indiscutibile impennata qualitativa. La prima perla del disco è Oh Beautiful!, un blues con tipica apertura lenta, pronto a deflagrare non appena l’ampli è satollo di silenzio. Bonamassa si dimostra a proprio agio col canto, oltre che preciso e decisamente ispirato negli assoli. Subito dopo una prima piccola svolta, Love Ain’t A Love Song, dove il registro è decisamente più funky: esperimento interessante, anche se non del tutto inedito, che riconferma Joe come un artista decisamente più onnivoro di quanto ci eravamo abituati a considerarlo. Quel che ci piace di più del “nuovo Bonamassa” è però l’attitudine con cui si dedica alla composizione e in particolare agli assoli. Ci sembra infatti che Joe non si contenti più di suonare “alla BB King”, o di ricalcare i suoi maestri, Jimmy Page su tutti. C’è un qualcosa di più immediato e più fresco nelle note che provengono dalla sua chitarra. Sensazioni di cui si ha precisa percezione in Loving On The Moon, dove i 4/4 non suonano stinti e ingabbiati, il riff è impreziosito dai fiati in controtempo, l’assolo è ricercato, ma non logorato da sovraincisioni. Si fa così strada la sensazione che il vero salto di qualità Joe l’abbia fatto in termini di naturalezza e immediatezza. Il bluesaccio sporco di Heartache Follows Wherever I Go ne è ulteriore dimostrazione. Qui il chitarrista crea melodia con semplicità e, se è vero che oramai nel blues c’è poco da inventare, accostando con gusto materiali di provenienza diversa. Ad esempio in Heartache… cita vagamente Hendrix, abbozzando col crybaby, poi il timbro di chitarra vira decisamente verso l’hard rock. Joe Bonamassa non è un genio innovatore della chitarra o un nuovo, messianico guitar hero; più semplicemente, DIFFERENT SHADES OF BLUE ci parla di un artista che conosce a menadito il blues, sa molto bene da dove viene e prova a immaginare in quale direzione andrà. Non è roba da poco. Non è roba da tutti.
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John Mellencamp – Recensione – Performs Trouble No More https://stonemusic.it/926/john-mellencamp-recensione-performs-trouble-no-more/ https://stonemusic.it/926/john-mellencamp-recensione-performs-trouble-no-more/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:50 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=926 Artista: John Mellencamp Titolo: Performs Trouble No More Etichetta: MERCURY Autore: Enzo Curelli   Garanzia Ho ancora nelle…

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john-mellencamp-performs-trouble-no-more-live-at-town-hall-1405614775
Artista: John Mellencamp
Titolo: Performs Trouble No More
Etichetta: MERCURY
Autore: Enzo Curelli

 

Garanzia
Ho ancora nelle orecchie il ronzio fastidioso di molti fan all’uscita del primo, unico [no, suonò anche all’Auditorium di Roma, ndr] e forse ultimo, concerto dell’ex “giaguaro” dell’Indiana in Italia, nel 2011, a Vigevano: concerto breve, si lamentarono in tanti, concerto intenso, risposero altri. Avevano ragione tutti. Quando si tratta di dischi, i minuti sono messi da parte (15 tracce) e a prevalere è solo l’intensità, cui non sfugge questo live registrato da Mellencamp con la sua band (Andy York su tutti) nel luglio del 2003, alla Town Hall di New York, davanti a 1500 spettatori.
Il programma prevede l’intera track-list di TROUBLE NO MORE, riuscito disco di sole cover uscito un mese prima di quello show e divenuto, con il senno di poi, vero e proprio avvio della sua ultima fase musicale, in corso ancora oggi. Uno scavo nei suoni americani più rootsy, le sue principali influenze: il primordiale blues di Robert Johnson e Willie Dixon, il folk di Woody Guthrie, riuscite e attualizzate riletture (To Washington), omaggi (Lucinda Williams), più l’aggiunta di alcune hit autografe e Highway 61 Revisited di Dylan, il tutto suonato con il contagioso fervore rock di sempre.
7/10

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Black State Highway – Recensione – Black State Highway https://stonemusic.it/893/black-state-highway-recensione-black-state-highway/ https://stonemusic.it/893/black-state-highway-recensione-black-state-highway/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:50 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=893 Artista: Black State Highway Titolo: Black State Highway Etichetta: HEAR NO EVIL Autore: Lorenzo Becciani   La grande…

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BLACK STATE HIGHWAYArtista: Black State Highway
Titolo: Black State Highway
Etichetta: HEAR NO EVIL
Autore: Lorenzo Becciani

 

La grande tradizione hard blues!
Un esordio eccellente quello del quintetto multietnico nato al Brighton Institute Of Modern Music. La loro missione è recuperare il fervore elettrico di Who, Zeppelin, Humble Pie, Free e AC/DC, in un momento storico in cui la scena britannica non riesce a produrre alcunché di interessante e innovativo. In bilico tra hard rock e blues, l’ascoltatore viene trascinato dalla chitarra di Olie Trethewey, che alterna assoli di classe e passaggi estremamente melodici, e colpito dalla personalità vocale della lettone Liva Steinberga.
La sua voce trasmette energia e garantisce l’efficacia di tracce quali Ain’t Got Know e Sacrifice, che spiccano in una scaletta priva di filler.
Molto dipenderà da quanto si dimostreranno validi dal vivo, ma la sensazione è che sentiremo parlare presto di loro.
7/10

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Mike Tramp – Recensione – Museum https://stonemusic.it/941/mike-tramp-recensione-museum/ https://stonemusic.it/941/mike-tramp-recensione-museum/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:50 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=941 Artista: Mike Tramp Titolo: Museum Etichetta: TARGET Autore: Lorenzo Becciani   Ancora qualcosa da dire Dopo l’uscita di…

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MikeTramp-Museum
Artista: Mike Tramp
Titolo: Museum
Etichetta: TARGET
Autore: Lorenzo Becciani

 

Ancora qualcosa da dire
Dopo l’uscita di COBBLESTONE STREET, album intimista e quasi Interamente acustico, l’ex voce dei White Lion ha dato seguito alla collaborazione col produttore Søren Andersen (già chitarrista di Glenn Hughes) e registrato dieci tracce che rivelano la sua passione per artisti come Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen. Trust In Yourself e Down South spiccano in una scaletta onesta, nella quale l’elettricità e l’aggressività vengono spesso messe da parte, senza però scadere in melodie di basso profilo. È evidente che la carriera solista di Mike ha ormai preso una svolta diversa, anche se dubito che saranno in molti a rimpiangere the rock’n’roll circuz e STAND YOUR GROUND. La nostalgia semmai è per i tempi dei troppo sottovalutati Freak Of Nature, ma MUSEUM si lascia comunque ascoltare.
6/10

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Old 97’s – Recensione – Most Messed Up https://stonemusic.it/945/old-97s-recensione-most-messed-up/ https://stonemusic.it/945/old-97s-recensione-most-messed-up/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:50 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=945 Artista: Old 97’s Titolo: Most Messed Up Etichetta: ATO RECORDS Autore: Giulia Nuti   Vent’anni, tra country e…

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Old '97 MOST MESSED U P
Artista: Old 97’s
Titolo: Most Messed Up
Etichetta: ATO RECORDS
Autore: Giulia Nuti

 

Vent’anni, tra country e punk
Nuovo album e debutto con la Ato per gli Old 97’s del cantante e chitarrista Rhett Miller. La band compie vent’anni e li celebra con un album ruggente, denso, energico, una sorta di concept sulle vicissitudini e le disavventure dell’essere musicisti.
MOST MESSED UP è una fusione di country, folk e punk,
in cui la scrittura è a fuoco e l’attitudine della band catturata come in una registrazione live.
Grintosi numeri alla Pogues (Nashville) si alternano alle più garage Guadalajara e Intervention, alla più british The Disconnect, alla ballata (cosa, altrimenti?) This Is The Ballad. Registrato a Austin e prodotto da Salim Nourallah, l’album vede la partecipazione di Tommy Stinson (Replacements) e Jon Rauhouse (Neko Case). Dodici tracce muscolari, trascinanti, che non lasciano neanche il tempo di respirare. Un batter d’occhio e vi ritroverete alla fine, con Rhett Miller che vi saluta spiegando che lui è “il più sbandato bastardo in città”.
7/10

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Philip Sayce – Recensione – Influence https://stonemusic.it/950/philip-sayce-recensione-influence/ https://stonemusic.it/950/philip-sayce-recensione-influence/#respond Mon, 21 Sep 2015 10:59:50 +0000 http://www.classicrockitalia.it/?p=950 Artista: Philip Sayce Titolo: Influence Etichetta: MASCOT Autore: Davide Zucchi   Personalità e feeling Disco gustoso questo INFLUENCE,…

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Philip-Sayce InfluenceArtista: Philip Sayce
Titolo: Influence
Etichetta: MASCOT
Autore: Davide Zucchi

 

Personalità e feeling
Disco gustoso questo INFLUENCE, il sesto nel percorso in crescere di Sayce. È sufficiente un primo distratto ascolto, difatti, per accorgersi di essere in presenza di un lavoro pregiato: tredici tracce in cui si concentra un rock blues indiavolato, che ha in chitarristi come Hendrix e Stevie Ray Vaughan il proprio riferimento, ma che si completa con un’attitudine funky/soul.
Ci intrigano Out Of My Mind e I’m Going Home, vere immersioni in un rock duro, ben suonato, genuino, mentre Sayce convince meno quando si misura con i lentoni: tutta l’immediatezza prima magnificata, risulta ora sacrificata. Né è sufficiente un assolo confezionato con buon feeling per evitare una pericolosa sensazione di noia. Anche perché, in quei momenti, Sayce fa venire in mente Lenny Kravitz… con le debite proporzioni. Proprio come Lenny, se nei pezzi meglio riusciti pare un concentrato di carisma e testosterone, in quelli più “scarichi” rischia di suonare melenso o evanescente. Nel
complesso, comunque, un buon lavoro e una bella sorpresa. Phil, ti teniamo d’occhio!
7/10

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